CARA CINZIA – Nascondiamo paure e sorrisi

Cara Cinzia,

siamo fuori. In questo paesino al centro di Roma che è il mio quartiere le signore anziane con i carrelli, i ragazzi alla moda, i professionisti nuovi arrivati, gli artigiani e i ristoratori, hanno cominciato a mettere la testa fuori e a capire come ricollocarsi tra i vicoli agli occhi propri e altrui. Sono uscita sotto casa, accolta da un brontolio anziano da dietro una persiana: «Bravi che uscite, bravi. Non ve ne frega gnente si s’ammalamo».

Ho alzato lo sguardo, abbassato la mascherina e sorriso. Mi ha risposto un sorriso rugoso: “nun cellò co te eh… cellò co quelli che se fanno i fatti loro”, ha continuato indicando dei ragazzini lontani che parlottavano vicini e liberi.

La mascherina per dire: mi importa

In quel momento ho capito davvero perché avevo messo la mascherina, pur sapendo che finché restavo in strada, a distanza ‘solitudine’ dagli altri, non avrebbe fatto alcuna differenza. Pur continuando, fin dal primo giorno di questa distopia, a non aver paura del ‘vicino invisibile’. L’avevo fatto perché non volevo che qualcun altro, vedendomi, avesse paura. Non volevo che pensasse che non m’importava, non volevo che nessuno mi credesse indifferente alla necessità che ciascuno di noi faccia la sua parte per uscire da questo scadente film noir.

Sono davvero convinta, però, che tutto quanto ci è stato chiesto, o ci verrà chiesto, sia giusto o appropriato? Proprio no. Siamo passati in scioltezza dagli aperitivi a oltranza alla quarantena, dal tappatevi in casa, al coprifuoco, al riapriamo tutto, che se non lo decide chi di dovere lo facciamo da soli. Non mi fido, per carattere, dei santi, dei taumaturghi, dei riti, di uomini o donne soli al comando, con forze in tasca più o meno straordinarie. Non mi fido. Credo nella saggezza del capire e decidere insieme, nei processi limati nel tempo, nelle catene decisionali democratiche e consolidate, dove l’eccezionale imprevisto lo si affronta con il meglio di quanto si è sperimentato a prova di fallimento, non con l’idea meravigliosa che ti sfanga la conferenza stampa.

E’ per questo che oggi, fuori di casa, mi sento come se il mio navigatore interno avesse perso da qualche tempo linea e coordinate.

Irresponsabilità d’impresa

Mi pare evidente che a troppi, là fuori, importi poco o nulla della paura degli altri, e di quanto questa paura sia più dolorosa del danno stesso della pandemia. Scaricano su di noi cittadini frastornati responsabilità a caso tra la bandiera strappata d’Europa, conati di nazionalismo e irrazionali scappatelle in riva al mare o tra brandelli di movida. Nessuno però sembra volerci spiegare perché la maggior parte delle indennità di cassa integrazione, che dovevano dare sicurezza ai lavoratori lasciati a casa dal Covid, giacciono intasate all’Inps. I fondi per i 600 euro che dovevano sostenere chi era rimasto senza ogni altra forma di retribuzione sono finiti, e quelli nuovi tardano a arrivare. In molte città i bonus affitto arriveranno a settembre e quelli per la spesa si sono risolti in un pugno di spicci una tantum.

Nel frattempo l’irresponsabilità d’impresa istituita chiede di azzerare contratti e tutele e di non pagare più quelle tasse che contribuiscono al funzionamento della Sanità pubblica, proprio a ridosso di una pandemia. Mentre altre imprese stentano a avere i fondi cui avrebbero diritto, e continuano a sostenere lavoratori e territori.

E’ una candid camera?

Quando giocavamo a pallone in strada, la presunzione e il sogno d’incarnare il prossimo Pelé si infrangevano a volte in finestre rotte e macchine abbozzate. Erano quelli i momenti in cui i veri capi conquistavano le redini dei gruppetti di cortile. Le mani sudate afferravano il pallone, o solo tutto il coraggio che c’era, e suonando campanelli o citofoni trovavano il danneggiato, un cazziatone e la soluzione. Il gruppo tratteneva il respiro, si stringeva a gomito e a braccetto e faceva di un bambino un gigante, di un apprendista teppista un luminoso condottiero.

A noi mancano, fuori più che in casa, la luce e una linea, il coraggio e la comunità, di conseguenza. Spettacolarizzare il corpo a corpo col virus con il rito della conferenza delle 18 ci aveva appeso, nelle nostre case, alla suspence del Dpcm. Ma quando al primo è subentrato il secondo, e poi un terzo e un ennesimo, in un can-can di autocertificazioni e di droni, di Regioni-canaglia, di congiunti – non amici – e di ignoti cugini di settimo grado, il dubbio si è fatto strada strisciante. Ma stiamo davvero rischiando la pelle, o siamo comici involontari di una candid camera che ci ha preso la mano?

La conferenza delle 18 è sparita, ma la gente si ammala e muore ancora. Come prima, meno di prima? Non importa. Ciò che importa e ci condiziona è la paura: di non farcela, della povertà, di non tornare ad abbracciarci più con chi conta per noi, anche se a rigor di carte non vale niente. Ma soprattutto la paura di essere in mano a chi ne ha più di noi. Perché teme di perdere le rendite di posizione accumulate per la nostra paura, grandi guadagni possibili solo con la nostra disperazione.

Promettiamo

E allora stringiamoci ancora, a gomito e a braccetto, ora che la finestra è rotta e il sogno del campione definitivamente infranto. Sorridiamoci anche sotto le mascherine: promettiamoci che nessuno ci prenderà per il naso o per stanchezza, giocando con la paura e la povertà. Promettiamocelo ora che siamo fuori, e la realtà che dobbiamo affrontare di qui in avanti sarà molto più dura di come l’abbiamo mai temuta.

Ciao,

Monica

4 risposte a “CARA CINZIA – Nascondiamo paure e sorrisi”

  1. il PROMETTIAMO che chiude la lettera di Monica è proprio quello che io, ottantenne piemontese, sto pensando da quando è iniziata la fase due, da quando ho cercato di sorridere sotto la mascherina che non ho mai smesso come non ho mai smesso, lo confesso, di avere paura, sperando che il mio futuro possa continuare anche a fronte di una realtà sempre più dura.

    1. Caro Augusto, per quello che vale io glielo prometto. Credo che il merito più grande – tra i tanti – di questa bellissima idea di Cinzia sia quello di avere creato uno spazio virtuale dove possiamo provare a essere insieme i sorrisi e i pensieri di cui abbiamo bisogno

  2. Buongiorno Monica.
    Condivido tristemente l’analisi lucida che tu fai del nostro “tempo” cosi come la ricostruzione tragica e e farsesca di quanto sino ad ora ci è stato rappresentato.
    Abbiamo tutti vissuto il Carosello delle 18,00 nell’auspicio che esso potesse offrirci parole di speranza ed una linea retta da seguire, ma ad ogni sua conquista ne conseguiva una perdita ancor più dolorosa.
    La perdita di un senso compiuto e di una generazione di padri che lasciano un vuoto di sapere incolmabile.
    Con essi è scomparsa la Biblioteca del nostro passato che ben sappiamo sarà destinato a ripetersi e quando accadrà saremo tutti ancora più soli, nudi di fronte al futuro e spogli dei valori di chi ci ha nutrito con la propria conoscenza.
    Ogni giorno di fronte al Carosello dell 18,00 mi sentivo come un burattino in mano ad altri, inerme e confuso ed ecco che quando ritenevo di aver compreso il mio naso si allungava. Un Pinocchio moderno a cui il naso si allunga, come già accadeva al protagonista dei nostri racconti, nel momento in cui crede alle bugie altrui. Vorrei tanto tornar bambino, sentirmi ancora un gigante e dall’alto di una piccola vetta un luminoso condottiero, ma in realtà siamo oggi solo dei comici, forse spaventati guerrieri. I nostri figli, privi dei nonni e di un intero mondo di relazioni, oggi divenuti cattivi sono soli davanti ad un video game, dove anche i loro super eroi un tempo sono stati bambini privati, cosi come spesso lo sono stati i loro autori. Così facendo chiedono ai protagonisti del loro vissuto di cambiare il mondo usando dei super poteri ma sono circondati da adulti incapaci di spiegare le ragioni di questa nuova solitudine.
    “O Babbo mio se tu fossi qui” insisteva Pinocchio in punto di morte, se solo ti avessi dato ascolto,
    se non avessi creduto al gatto, alla volpe ed all’oste del Gambero Rosso, ed ancora se non avessi creduto nella globalizzazione di un parte del pianeta a scapito di un altra dove ciò che conta è soltanto cosa hai e non ciò che sei. Oggi siamo tutti arbitri, giudici e censori. Buttiamo i nostri guanti per terra dopo averli indossati e denunciamo due innamorati che si baciano in un parco.
    Abbiamo normato gli affetti per decreto, e siamo pronti a denunciare quanto sia ingiusto regolarizzare le vite di chi soffre ogni giorno nei nostri campi assicurandoci lo svolgimento di un lavoro che non vuole più fare nessuno. “Prima gli Italiani”, “mangiamo siciliano o lucano o piemontese”. Dimentichiamo che la maggior parte degli aiuti ci sono stati forniti da altri paesi, ed anche che senza il nostro export l’intero PIL nazionale crollerebbe di getto. Ognuno per se e Dio per tutti. Io non ci sto ! Faccio mia la tua accorata Promessa e. che essa diventi un documento capace di opporsi alla minaccia del uomo forte e risolutore.
    Gomito a gomito, non solo il pane ma anche le rose, ridiamo speranza ai nostri figli e lasciamo che sia la loro bellezza a disegnare un n uovo mondo. Noi saremo l’argine che frena la tempesta e loro la barca alla scoperta di una nuovo mondo possibile.
    Con immutata stima.
    Giorgio

  3. I tuoi figli possono contare su una promessa davvero preziosa. E grazie di averla condivisa sulle pagine di Cinzia. Ti confesso che non ero contenta di questa lettera, e con Cinzia ci abbiamo pensato su, perché si solito sono poco un tipo da reprimende e più da “come facciamo”. L’avevo scritta più volte, e da capo, ma era uscita bene o male sempre così. Ce la siamo tenuta, con il suo carico di frustrazione. Spero che serva a rendere più forte la promessa. Stando a questi commenti sono convinta di si ed è un gran sollievo. Grazie del tuo tempo e dei pensieri

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