Cheese 2025, con la morte di Gaza nel cuore

Domani, nella mia città, inizia un evento biennale molto atteso. Si chiama Cheese, è uno degli eventi più importanti realizzati da Slow Food:  un evento importante, che cerca di raccontare al vasto pubblico cosa significa produrre formaggio rispettando gli animali, l’ambiente, la salute delle persone e del pianeta. 

Cheese è un evento bellissimo, perché raduna in una cittadina della provincia di Cuneo centinaia di casari da tutto il mondo: per quattro giorni un enorme mercato monotematico invade il centro storico e  lo fa, ad anni alterni, dal 1997; contemporaneamente si tengono degustazioni, laboratori, conferenze, dibattiti, premiazioni.

Cheese è passato attraverso i fatti del mondo per 28 anni e anche quando erano fatti drammatici, come i terremoti in centro Italia, l’attentato alle torri gemelle, il Covid, Cheese ha sempre saputo trovare il suo posto nella cronaca, è sempre riuscito ad evidenziare il nesso che dava un senso all’esserci, al provare a capire, a trovare una strada laterale di solidarietà, presenza, testimonianza, supporto a chi quegli eventi li viveva in prima persona subendone la violenza immediata e i danni delle conseguenze. 

Ma quest’anno, come si fa? 

Un gruppo di cittadini braidesi ha organizzato una manifestazione pacifica a favore della Palestina, che si terrà in concomitanza con la cerimonia di apertura. Le autorità si sono subito attivate per monitorare la situazione, decidere a quale distanza dal palco potranno esporre le loro bandiere ed eventuali striscioni. In ogni caso la manifestazione si farà, ed è giusto che sia così. 

A cosa serve? Rispetto alla soluzione del problema, certamente, non serve. Ma serve, forse, a trattenerci dal saltare nel baratro. 

Perché la verità è che nulla serve a risolvere quel problema. Nulla potrà fermare un governo criminale che ha messo in pratica un progetto cullato da 80 anni e che oggi finalmente sta realizzando. Lo ha cullato non solo sognando, ma stabilendo relazioni commerciali e politiche con tutti i paesi democratici che oggi non si azzardano a intervenire. Mentre i Palestinesi, sempre più poveri e isolati, oltre che sempre di meno e con meno territori, non intrattenevano relazioni commerciali e politiche con nessuna democrazia, perché non avevano nulla da offrire. 

L’innocenza perduta

Oggi, davanti a quel massacro che ha smesso di svolgersi lontano dai media, e viene anzi propagandato e annunciato come una grande campagna di business, nessuno può fare nulla. 

Tutti noi che siamo nati dopo il 1940 circa finora abbiamo potuto riferirci all’Olocausto come a una cosa orrenda ma sulla quale noi, le nostre generazioni, non avevano nessuna possibilità di intervenire: lo abbiamo saputo dopo, poco dopo o molto dopo non importa, ma quando lo abbiamo saputo ormai ci avevano pensato i Russi a mettere la parola fine, entrando nei campi di concentramento, aprendo le porte delle baracche, svelando l’orrore indicibile. 

Quei brandelli di innocenza con cui abbiamo cercato di coprire quella vergogna, ora sono andati perduti. Sappiamo. Tutto. Da 40 anni o da 2 non importa, ma noi che siamo qui, oggi su questo pianeta sappiamo esattamente cosa sta succedendo in Palestina.

30 anni fa – Cheese doveva ancora nascere –  un bombardamento della Nato sulla Bosnia-Erzegovina mise fine a una guerra che durava da 3 anni e dalla quale non si riusciva a uscire per le vie diplomatiche. Forse in quel momento l’Europa perse la sua, di innocenza, ma ora nemmeno quello può succedere, sia perché la Nato non può avviare azioni offensive (può intervenire solo per difendere un paese membro) sia perché la Palestina non fa parte di nessuna alleanza che potrebbe scendere in campo per proteggerla. La Palestina, per alcuni Stati, tra cui il nostro, tecnicamente non esiste. 

Se la democrazia si regge sulle macerie altrui

Israele invece esiste e fa parte di molteplici alleanze; la sua anomalia è quella di essere un paese che non ha né intende darsi una Costituzione. Perché in una Costituzione devi innanzitutto descriverti; devi dire, banalmente, quali sono i tuoi confini. Eppure con questo paese tutti i paesi democratici hanno fatto affari da 80 anni a questa parte. Allora, di nuovo: davvero siamo paesi democratici? La democrazia può sostenersi anche in presenza di comportamenti che favoriscono paesi che democratici non sono?

Nelle mie lezioni sulla sostenibilità chiarisco ai miei allievi che la sostenibilità non si accontenta di una versione dei fatti. Se la sostenibilità di un popolo si basa sul fatto che i danni ambientali che quel popolo crea si riversano su qualcun altro allora non c’è nessuna sostenibilità. La sostenibilità è per tutti, o non è.

Pastori e casari lo sanno

Cheese su questo è stato una grande scuola, e i maestri di quella scuola sono coloro che nel loro percorso produttivo e agricolo non accettano compromessi, scorciatoie e non danno sostegno a chi invece fa le cose esattamente nel modo opposto. Forse questi ultimi fanno più soldi, anzi di sicuro. Ma non con l’aiuto dei maestri di Cheese. 

Non è un mondo perfetto, quello dell’agricoltura di qualità e della pastorizia resistente, certo. Di sicuro non è un mondo premiato, né dalle normative, né dai governi. Spesso non è premiato nemmeno dai consumatori. Però, se non altro, è un mondo in cui le regole del gioco sono chiare, il mondo dell’agricoltura contadina e sostenibile non è incline alle mezze misure. Il mondo dell’agricoltura contadina, come ben sa l’oliveto che vedete in foto, ha bisogno di lunghi anni senza guerre.

Armi spuntate, ma non abbiamo altro

Quando abbiamo imparato che la democrazia, invece, può basarsi sull’ingiustizia purché questa sia compiuta altrove? 

Quando il nostro sguardo sull’altro ha smesso di partecipare a quei destini? Sui libri di storia si studiano i giovani rivoluzionari che si spostavano dal loro paese in pace ad un paese in guerra civile per appoggiare una giusta causa, rischiando di lasciarci le penne. Per uno che è diventato l’Eroe dei due Mondi, quanti sono morti mentre attorno a loro si gridava in una lingua straniera?

Oggi la nostra arma spuntata si chiama manifestazione. La facciamo sotto casa, senza rischiare nulla, e probabilmente senza sperare nulla. Eppure non possiamo non farla, e la Digos e tutte le autorità costituite forse iniziano a rendersene conto. Spostatevi un po’, dicono, qua è zona rossa, ma se vi mettete là va bene. Domattina la faremo, chissà in quanti, forse gli stessi che hanno caricato i furgoni di cibo da mandare via con le barche partite da Genova. Non sappiamo se quel latte, quel riso, quello zucchero raggiungerà mai il corpo di un bambino palestinese. Così come non sapremo mai se le richieste di domattina – che la Regione Piemonte chiuda qualunque rapporto economico, produttivo e commerciale con Israele – saranno prese in considerazione.

Sappiamo per certo che nell’oretta che passerà tra l’inizio (alle 10,30, sull’Ala, per chi vorrà esserci) e la fine della manifestazione troppi palestinesi moriranno, scapperanno, rischieranno la vita loro e quella dei loro cari. Tra l’inizio e la fine di Cheese 2025 – quattro giorni – potrebbe scomparire quel poco che di Gaza City ancora c’è mentre scrivo. Mentre faremo i complimenti a chi resiste con le sue capre in montagna, a chi si ostina a non usare lieviti industriali, a chi insegna ai propri figli un mestiere che ha a che fare con la natura prima che con il reddito, in un angolo del nostro cervello avremo case, palazzi, scuole, ospedali, strade che saltano letteralmente per aria. 

Allora Cheese, anche per Gaza

Eppure non avrebbe senso cancellare tutto. Non avrebbe senso non manifestare domattina a favore della Palestina e non avrebbe senso non fare Cheese 2025. Perché l’unica cosa che ci rimane, per mantenere un brandello di umanità, e di civiltà, è stare insieme. Insieme davvero, non sui social. La Palestina farà capolino in migliaia di conversazioni nei prossimi quattro giorni, faremo Cheese ritrovandoci e riabbracciandoci con una malinconia speciale perché ci è toccato in sorte di essere testimoni di un eccidio che non siamo riusciti a prevenire, a denunciare, a fermare. Abbiamo perso ogni innocenza, ogni possibile forma di speranza. Ognuno di noi è isolato nel proprio sgomento, nella certezza della propria impotenza. Per quattro giorni, invece, saremo insieme e proveremo a dire “Palestina Libera” ogni volta che avremo l’occasione di trovarci un microfono davanti, ogni volta che saluteremo un amico, ogni volta che penseremo alle macerie di quelle case e a quanto assomigliano alle macerie del nostro Occidente. 

Tutto inutile e tutto troppo poco, ma per quel che vale proveremo a ripeterlo: Gaza, Bra, per quattro giorni, è con te.

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