Non so quasi mai che radio sto ascoltando.
Appena qualcosa mi irrita, se c’è un’interferenza che disturba l’audio o se una musica non mi piace, passo alla stazione successiva. Così, quando accendo la radio, solitamente mentre sfaccendo (mai mentre lavoro, mi distrae), è sempre una “radio qualunque” quella che inizio ad ascoltare. Quindi non so dire da quale emittente partiva il dialogo che sto per raccontarvi. So solo che non era una radio locale, con le pubblicità del meccanico o del negozio di casalinghi. Era una emittente di caratura nazionale, con le pubblicità “famose”, dei grandi marchi.
Insomma, l’ho accesa:
…”Si era portato la clap” dice la conduttrice. Chiudo il rubinetto, credo, spero, prego di non aver sentito bene. Mi immobilizzo, fissando le tazze sporche nell’acquaio.
Il co-conduttore esita e fa la domanda che fanno le persone beneducate quando non vogliono correggere esplicitamente gli interlocutori: “La clap o la claque?”
“No no, risponde lei, la clap. E’ un termine… come si dice… onomatopa… onomatope…”
“Onomatopeico?” soccorre lui, sempre interrogativo, sempre mite.
“Esatto. Viene dall’inglese, dai fumetti. Clap è il rumore degli applausi, quindi portarsi la clap significa portarsi qualcuno che applaude. Nel fumetti quando qualcuno applaude c’è sempre scritto clap clap”.
Al disastro basta un attimo
In un istante mi passano per la testa mille ipotesi: telefonare (ma a chi, che non so che radio è), mandare un whatsapp (a quale numero), mandare i carabinieri, un’ambulanza, fare un esposto alla magistratura.
Intanto lei continua e lui cerca di arginarla, ma è inutile. La clap ha vinto.
Spengo la radio, con i movimenti concitati con cui si spegne un inizio di incendio.
Nel riconquistato silenzio di casa mia, mi chiedo in quanti avranno sentito e imparato che si dice portarsi la clap e non la claque. In quanti avranno trovato sensato il ragionamento per cui le espressioni onomatopeiche sono quelle che si leggono nei fumetti, e che i nostri modi di dire vadano cercati sempre e solo nella lingua inglese.
E quanti ne avranno riso, invece di disperarsi come sto facendo io, lo so, in modo sproporzionato.
La responsabilità del dire
Ma soprattutto: mi chiedo se davvero chi fa intrattenimento sia convinto di non avere nessuna responsabilità, di non essere un attore culturale. Le migliaia di parole che sentiamo ogni giorno alla radio, nei programmi cosiddetti “leggeri”, o in tv o nelle mille situazioni in cui la parola cultura dà luogo a eritemi immediati, e non parliamo della parola educazione: davvero chi le pronuncia è convinto di non poter fare danno? Davvero crediamo che le chiacchiere costruite a tavolino tra due conduttori radiofonici che tra una canzone e l’altra danno le notizie “di colore” o leggono i messaggi degli ascoltatori, non lascino traccia, non creino “competenze”, non siano l’inizio di una valanga di potenziali fesserie che vanno a comporre il pastone di approssimazione che ogni giorno ci tormenta, tra ministri che confondono il Thames con Times Square o accrocchiano Colombo e Galilei e studenti universitari che non mettono un accento quando scrivono nemmeno a chiederglielo per favore o diplomati che non sanno dove scorre il Po?
Che sarà mai
Vi vedo, pensate che sto esagerando. In fondo che avrà mai detto, povera conduttrice. La parola claque, in effetti è un’espressione onomatopeica, cioè una parola che deriva dalla riproduzione in lettere del suono che descrive. E’ francese, non inglese, ma che sarà mai. E’ gergo teatrale, non dei fumetti, ma che sarà mai.
Ma il punto è la responsabilità del dire. Quando parliamo con qualcuno ci prendiamo non solo la responsabilità di quel che diciamo e delle conseguenze che può avere su di noi (essere considerati degli imbecilli, per esempio), ma anche la responsabilità di quel che trasmettiamo a chi ha meno strumenti di noi, a chi ascolta le nostre parole da una posizione di minore potere. I conduttori radiofonici hanno più potere di chi ascolta la radio; un ministro (della Cultura!) ha più potere di un ragazzino che non ha ancora studiato storia.
Cosa impara, chi ascolta?
Tutti coloro che hanno un pubblico – a qualunque livello, incluso il bar o la parrucchiera – dovrebbero ricordarsi che ciò che dicono può essere “imparato” da chi ascolta. Specialmente in questa nostra contemporaneità, in cui apparentemente tutte le fonti hanno la stessa autorevolezza e quindi “l’ho sentito alla radio” equivale a “l’ho letto sul Sabatini-Coletti”, bisogna avere la prudenza di parlare solo di ciò che si conosce e se qualche volta, in buona fede, si esce dal proprio seminato e si dice una sciocchezza, allora bisogna lasciarsi nutrire dal dubbio, e correggersi.
Se domattina, riaccendendo la radio, sentissi quella conduttrice fare ammenda per la sciocchezza detta con tanta sicumera 24 ore prima, allora sì che chiederei per lei un applauso. Ma uno vero, mica quello della clap.
Ah, gli anglicismi inventati! Uno studente all’esame di composizione architettonica continua a parlare di “absaid”. La docente chiede spiegazioni. E l’interrogato, un po’ seccato: “Ma come! Non sa cos’è l’absaid? È il nome inglese della zona dietro l’altare, come la chiamate voi? Riferito dall’orgogliosa protagonista.
Molti anni fa alla radio, al TG regionale, il cronista raccontò di un carabiniere che, ad Aosta, si era ferito accidentalmente a un piede mentre estraeva la pistola dalla fontina. Una pausa seguita da una risata non trattenuta, poi le scuse. È stata la notizia più divertente ascoltata alla radio. Ma professionisti così non ce ne sono più.
ma non stanno a sentire? A lezione il loro professore diceva ABSAID? E comunque le parole si cercano, ci sono i dizionari, anche online e anche con la pronuncia in audio. Perché, maledizione, perché.
Perché? Forse perché siamo una colonia (infantile)?
Scusami, mi sono accorto di aver scritto “orgogliosa” invece che orgoglioso. E a raccontarlo rideva, tutto contento!
Buone vacanze!
L’intrattenimento tv è cultura. Ad esempio i programmi di cucina con il loro linguaggio specializzato. Andiamo a tagliuzzare, andiamo a mantecare, è un continuo andare a, senza mai che vadano finalmente e davvero.
Le convenzioni internazionali hanno stabilito che l’unità di misura dei liquidi è il litro, indicato con l minuscolo senza punto. La millesima parte del litro è il millilitro, ml in sigla. In tutto il mondo si dice millilitro, tranne nei programmi di cucina dove ml si dice solo ed esclusivamente emmeelle.
A cascata emmeelle è diventato d’uso comune e dei millilitri nessuno ha più memoria. Dice di conseguenza lo chef: “Sono alto un emme e sessantotto ciemme, peso novantasette cappagì, il mio cervello ha un volume di ben due virgola sette emmeemme con un tre piccolo un po’ in alto”. Maledetti, non vedo l’ora che tornino negli scantinati nuovamente a far parte della servitù, dov’è il loro posto. A spennare galline. E zitti. Spero che almeno a Pollenzo gli emmeelle siano banditi.
Chiudo con un indovinello. Pochi anni fa, rete ammiraglia Rai, TG1. La conduttrice legge una frase pronunciata da un senatore in cui si esprime il dubbio che una proposta di legge sia rimandata a tempo indeterminato. Di fronte a due paroline misteriose la giornalista non ha dubbi, si tratta inequivocabilmente di inglese e dice: “sain dain”. Qual era la locuzione?
Va bene. Ma la questione è davvero ampia e non ristretta agli ultimi periodi. Detto da segretaria di notaio ‘errata coriges’ (pronunciato con la ges alla francese). Risposta dell’interlocutore ‘perdoni, si direbbe errata corrige’. Reazione piccata della segretaria ‘anche Lei a contestarmi la pronuncia, mica ho studiato inglese’.