La protesta degli agricoltori mi interroga.
E le domande che mi pone, come attivista, studiosa, giornalista che da almeno 30 anni si occupa delle tematiche che riguardano l’ambiente e la produzione, distribuzione e consumo di cibo, sono una più fastidiosa dell’altra.
Con chi abbiamo parlato, in questi anni?
Dopo tutto quello che abbiamo detto, scritto e insegnato negli ultimi decenni, gli agricoltori, tutti gli agricoltori dovrebbero sentirsi parte integrante della natura, protettori dell’ambiente, alleati dell’ambiente. Se quel che abbiamo detto, scritto e insegnato li avesse in qualche modo raggiunti.
Invece i copertoni che bruciano davanti ai palazzi di Bruxelles, sono – in sé – una dichiarazione di guerra all’ambiente. Se gli agricoltori bruciano copertoni, se non si spaventano di quei gesti, allora stanno chiedendo alla politica di scegliere se stare dalla loro parte o da quella dell’ambiente. E l’acqua, l’aria, il mare, i microrganismi del suolo, sfortunatamente, non votano.
Dove erano, quegli agricoltori, quando giravamo piazze reali e virtuali a dire che no, i trattati intercontinentali non erano pensati per proteggere le produzioni di qualità?
Nelle loro aziende a lavorare, probabilmente. Dovevamo andare a parlarne là? Direttamente con loro? Perchè oggi loro dicono le stesse cose che dicevamo allora noi, su quei trattati. Avevamo degli alleati e non lo abbiamo saputo?
Come mai non c’è, in ambito agricolo, nessuna risposta a quelle proteste?
Ammesso di riuscire a comprendere le ragioni degli agricoltori convenzionali, che non vogliono abbandonare fertilizzanti, pesticidi e erbicidi di sintesi perchè ormai i loro campi sono entrati in una routine obbligata per uscire dalla quale ci vuole, oltre che incentivo economico, quella consapevolezza, formazione e condivisione che evidentemente non siamo stati capaci di costruire, come mai i biologici e i biodinamici non rispondono? Il Green New Deal è lì a dire che loro hanno ragione, che il modo in cui loro hanno inteso la produzione di cibo è l’unica via per un futuro di sostenibilità. Perché tacciono? Perché in tv non si vedono? Sono diventati, anche loro, il nemico? Se la rotazione delle colture, che in anni passati è stata imposta con leggi regionali per rallentare se non fermare la moria di api che stava travolgendo le regioni produttrici di mais, oggi è diventata motivo di scherno nel talk show in tv, perché non c’è nessuno che abbia abbastanza coraggio da dire che no, che la rotazione è un metodo che va salvaguardato se non vogliamo devastare i nostri suoli più di quanto non abbiamo già fatto finora?
Quando parlavamo della burocrazia che impastoiava le aziende agricole, i governi cosa pensavano?
Come mai la politica non ascolta le organizzazioni che si occupano di ambiente e di cibo di qualità? Pensa che stiamo a rompere le palle per il gusto di infastidire? Pensa che “governare” – una piccola comunità, una nazione o un continente – sia una roba talmente importante da dare ai governanti il diritto di non stare ad ascoltare nessuno? I nostri politici pensano che gli unici degni della loro attenzione sono quelli che parlano di soldi, investimenti, tecnologia, grandi opere? “Bello sbaglio, bello. Enorme” per citare Pretty Woman.
Ma soprattutto: perchè non si parla di quelle proteste con calma, competenza, curiosità, preoccupazione, voglia di risolvere?
Sono le elezioni europee così vicine che producono questo clima da incontro tra galli da combattimento? Se gli agricoltori stanno protestando adesso, non è solo perchè a febbraio hanno meno da fare, ovviamente, lo sanno anche loro che le elezioni sono vicine e stanno comunicando un messaggio piuttosto chiaro: chi ci risolve il problema avrà il nostro voto. Ma possiamo sperare in istituzioni che lavorino per il bene comune e non per i risultati immediati? Possiamo, finalmente, dare un senso al Green New Deal a partire dalle righe in cui l’Unione Europea, unica istituzione al mondo, si pone il problema di come garantire un ambiente vivibile per il nostro immediato futuro, quello meno immediato e quello non nostro, ma degli altri abitanti del pianeta.
Davvero non importa a nessuno?
Davvero vogliono ancora rifilarci, dopo tutti questi anni, il ritornello che bisogna trovare un compromesso tra le preoccupazioni ambientali e l’economia? Perché se siamo ancora lì, se davvero nessuno ha ancora capito che l’unica strada possibile è provare a difendere l’economia proprio tutelando l’ambiente, allora davvero, io e tutti quelli che fanno il mio mestiere sarà meglio che ci rassegniamo all’idea che dobbiamo rifare tutto da capo. Ricominciare. Da chi e da dove non lo so, ma sicuramente anche dalla politica, cercando di far capire, prima di tutto alla politica, che la cura dell’ambiente non è una scelta accessoria, ma l’unica possibile.
Sovranità alimentare
Possiamo, per esempio, ricominciare dalla definizione di sovranità alimentare. Che non è, come scioccamente qualcuno blatera, il diritto dei popoli a coltivare e mangiare quel che gli pare. La definizione di sovranità alimentare parla del diritto dei popoli a un cibo SANO e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ECOLOGICAMENTE CORRETTI E SOSTENIBILI. Parla degli interessi e dell’inclusione della PROSSIMA GENERAZIONE. Nella definizione ufficiale si legge inoltre che la sovranità alimentare offre “una strategia per resistere e smantellare l’attuale regime commerciale e alimentare aziendale e dà indicazioni per i sistemi alimentari, agricoli, pastorali e della pesca determinati dai produttori locali. La sovranità alimentare dà priorità alle economie e ai mercati locali e nazionali e potenzia l’agricoltura guidata dai contadini e dalle famiglie, la pesca artigianale, il pascolo guidato dai pastori e la produzione, distribuzione e consumo di cibo basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica”.
Visto che, meritorimente, abbiamo messo la sovranità alimentare nel nome del ministero dell’agricoltura (e non starebbe male nemmeno nel nome della Commissione Agricoltura UE), che ne dite se ricominciamo da qui?
Certo Cinzia. Ripartiamo. Anche se nubi scure si stanno accumulando e la miopia ci rende una specie degna di estinzione, ripartiamo. O forse meglio: Resistiamo
Non lo so, Sergio, davvero. A me sembra che ci sia proprio bisogno di ricominciare da capo. E non so se ne siamo in grado.
Certo quello che hai scritto, è quello che penso da molto,hai fatto bene a rimarcare questo.
Grazie, Paolo.
Buongiorno Cinzia, nei giorni scorsi attendevo impaziente un tuo intervento. Eccolo, come sempre saggio e esaustivo e che ho riletto più volte. Commento con l’intento di ampliare il dibattito che il tuo eccellente blog stimola.
La frutta si coglie prima dai rami più bassi e accessibili, poi da quelli più alti e più difficili da raggiunge. La teoria dei rendimenti decrescenti (Joseph Tainter) spiega come mai, nonostante le compensazioni europee (un terzo del bilancio dell’Unione), nonostante pratiche sempre più contronatura verso le colture e gli allevamenti, nonostante una manodopera schiavizzata e spesso gestita dal caporalato, nonostante l’espansione delle imprese agricole in estensione e intensione, i conti paiono non tornare.
I rendimenti decrescenti sono probabilmente dovuti a una costruzione mitologica sovrapposta al pensiero scientifico. La crescita senza limiti, le possibilità immaginarie e infinite delle tecniche di sostituire i limiti naturali (con l’aiuto della Cattaneo) e, su tutto, gli interessi speculativi della finanza globalizzata hanno prodotto quesi risultati.
I patelavacche di un tempo si sono evoluti ma il livello culturale si è ulteriormente ridotto. Presi come sono da semi brevettati, chimica ossessiva e inefficace, regolamenti poco comprensibili, burocrazia idiota, il tutto inserito in un contesto globalizzato della distribuzione, hanno dimenticato le loro origini e la saggezza dei loro bisnonni. Chi, di questi trattorizzati, saprebbe ancora ideare i canti popolari di protesta (dalla Valnerina Ternana alla Sardegna di Procurate ‘e moderare…) e avere un’idea chiara del proprio ruolo nella società?
Anche noi consumatori abbiamo responsabilità nell’accettare passivamente ciò che dalla GDO ci arriva (percorrendo in media oltre ottocento chilometri) in imballi che spesso superano in valore il contenuto edibile… ma questo è un altro discorso.
Ragazzi, lasciate a casa i trattori e, se proprio dovete, a protestare andateci a piedi.
Grazie, Rodolfo. I tuoi contributi sono sempre preziosi. E’ una situazione complessa e merita tutta la nostra capacità di riflettere e trasmettere. Proviamoci.
Buongiorno Cinzia, oltre a condividere pienamente il suo pensiero che trovo chiaro e facile da comprendere anche per i più “insensibili”, vorrei parlare del ruolo dei sindacati di categoria. Che sviluppo hanno subito in questi ultimi 30/40 anni? Come mai non li vediamo al fianco dei contadini?… e perché gli stessi contadini non li vogliono al loro fianco? Si sentono traditi?! In cosa?
Mi chiedo che ruolo hanno giocato questi sindacati, nati per accompagnare l’agricoltore e l’agricoltura verso all’auto sufficienza economica famigliare, nei rapporti con lo Stato e la Comunità Europea?
Io, come credo moltissimi di noi, provengo da una generazione di contadini, dove con 10 mucche 8 ettari di terreno mio nonno manteneva onorevolmente la sua numerosa famiglia. Oggi le aziende hanno centinaia di mucche con centinaia di ettari di terra ma nonostante questo non vivrebbero senza i contributi Europei.
Quindi mi chiedo: quale era il ruolo dei sindacati ma quale è stato veramente?!
Grazie per il suo impegno e per la tenacia che ha nel cercare di mettere sale in zucche vuote.
Buona giornata, Leonardo
Domande importanti, sulle quali dobbiamo riflettere, in ogni possibile sede. Grazie per la sua attenzione.
[…] Agricoltura o ambiente? Non è la domanda giusta. […]
Grazie per la condivisione. E per ricordarci che ogni cittadino, con la propria consapevolezza e le proprie scelte di spesa, può fare la differenza.
Grazie Cinzia. proseguiamo anche in città coltivando ortaggi biologici con compost, pacciamatura e poco consumo di acqua.
Grazie a te, Paolo. Certo l’agricoltura urbana è importante e può essere uno strumento fondamentale per l’educazione alimentare e la presa di coscienza da parte dei consumatori, perchè capiscano tante cose su cosa vuol dire produrre cibo. Ma l’agricoltura deve essere fatta in campagna e le campagne devono tornare ad essere luoghi salubri, luoghi sicuri, luoghi di cultura profonda e di cura dell’ambiente e del futuro.