Ci hanno insegnato, in questo povero Occidente e in un bel pezzo del resto del mondo, per almeno un paio di millenni e con versioni minimamente discordanti, che il corpo non importa. Importa l’anima, la mente, lo spirito. A corollario ci hanno insegnato che il presente non importa. Importa il futuro, la prossima vita, l’eternità, lo splendore dei cieli. Sulla terra, ad accompagnare i nostri corpi, solo miserie da cui stare alla larga.
Siamo corpi tra altri corpi
Su queste basi è entrata a gamba tesa prima tutta la potenza delle principali religioni, e poi tutta la potenza della realtà virtuale, della digitalizzazione, dei giochi online con il loro carico di asettiche, rapide e indolori eliminazioni seriali, la potenza delle relazioni social che scimmiottano e sostituiscono le relazioni sociali, la potenza della messaggistica istantanea che scimmiotta e sostituisce le conversazioni. In fondo, che male c’è. Che problema c’è a non guardare mai negli occhi la persona con cui stai parlando, a non sentire come respira, come esita, come le si incrina la voce se si commuove, come vibra di rabbia o frustrazione, se impallidisce, arrossisce, suda anche se non fa caldo, ha un brivido anche se non fa freddo? Ci sono gli emoticon, usiamo quelli.
Epperò la realtà di ognuno, quella costante, che non ti molla un secondo, è fatta di corpo. Quel dolore a un gomito che non se ne va, quel prurito per la maledetta zanzara, quell’accelerazione cardiaca che subito sganciamo dal corpo chiamandola gioia, quelle mani gelate che subito sganciamo dal corpo chiamandole spavento. Livelli accettabili di vitamina D danno molte più soddisfazioni di qualche migliaio di like, ma non lo sappiamo più.
Qualcuno, nel tempo, ci ha provato a dire che no, non funzionava così. Ci hanno provato gli antroposofi, e prima, durante e dopo di loro una pletora di cosmogonie indigene e di sapienze popolari, a dire che è nel corpo che tutto si compie, è nel cambiamento fisico del nostro corpo che abbiamo la prova che siamo cambiati davvero, è nel modo in cui ci ammaliamo che immagazziniamo quello che succede a noi e intorno a noi, ed è nella salute del nostro corpo che si manifesta l’equilibrio di quel che chiamiamo spirito. Li hanno ascoltati in pochi e quei pochi si sono assunti la responsabilità di fare la parte dei pirla.
La guerra lo sa
Gli unici che se lo sono sempre ricordati, quanto sono importanti i corpi, sono i signori della guerra: la guerra vera deve essere fatta di corpi. Se le armi diventano sempre più sofisticate e hanno bisogno di eserciti sempre meno popolosi, allora basta cambiare bersaglio, uccidendo i civili anziché i soldati. Purché siano tanti: la guerra, per essere guerra, ha bisogno di corpi, ha una costante e inesauribile fame di corpi. Andatevi a cercare i numeri di quanti civili sono morti nella prima e nella seconda guerra mondiale, e di quanti soldati sono morti. Poi andatevi a cercare i numeri di oggi. Oggi i soldati sono più al sicuro dei bambini, delle famiglie, dei commercianti, degli operatori sanitari, degli insegnanti. I missili, i droni, le bombe non mettono a rischio la vita di chi li utilizza, men che meno quella di chi dà l’ordine di utilizzarli. I corpi che giacciono a terra, sotto le macerie di Gaza, di Tel Aviv, di Teheran, di Kiev e di un numero insopportabile di altre zone del mondo, non sono i corpi di chi stava combattendo. Sono i corpi di chi stava lavorando, studiando, pulendo casa, facendo la spesa, consolando qualcuno, di chi stava tentando – invano – di proteggere qualcuno, il corpo di qualcuno.
La politica non può non saperlo
Anche la politica lo ha capito bene, e infatti i corpi dei politici non stanno mai dove ci sono le guerre. I negoziati, se si fanno, si fanno lontano da dove cadono le bombe. I politici si telefonano oppure si riuniscono in luoghi dove nemmeno un calcinaccio può cadere, nemmeno uno schizzo di sangue o di merda, o di materia grigia uscita da un cranio spappolato può rovinare quei completi impeccabili.
Eppure, e paradossalmente, quello dei corpi è l’unico linguaggio che la politica non può ignorare. Le relazioni diplomatiche, le raccolte di firme, le petizioni internazionali, le dichiarazioni più o meno scandalizzate, quelle si possono ignorare perché le parole si possono tradire. Ma i corpi no. I corpi hanno una potenza che se solo ce l’avessero spiegata qualche millennio fa, se ci avessero fatto capire davvero quella straordinaria metafora di un dio che “si fa uomo” per venire a dire delle cose sulla terra, oggi saremmo popoli meravigliosi. Quel dio ha avuto bisogno di un corpo, perché solo il corpo può davvero dire cose, può sentire e far sentire. Invece i portavoce di quel dio, e di altri dei che avevano seguito strade simili con i loro profeti o i loro messaggeri, si sono subito affannati a negare l’importanza del corpo, mortificandolo, negandolo, punendolo, coprendolo, nascondendolo. Negare il corpo è la condizione per accettare l’idea della morte. Bisognerebbe dirglielo anche a quanti, quotidianamente, uccidono donne e bambini al di fuori delle guerre: tra le mura di casa, solitamente, o poco lontano. Qualche volta poi, quegli assassini si tolgono la vita, a riprova che nemmeno con il loro stesso corpo hanno mai imparato a parlare, figuriamoci quello della moglie, dell’ex moglie, dei figli.
La società civile è il corpo di chi c’è
Questo, oggi, è il compito immane che la società civile internazionale sta assumendo su di sé: fare in modo che siano i corpi a riprendersi o a costruire gli spazi di pace, anziché essere protagonisti solo di quelli di guerra. Le migliaia di persone che hanno detto “andiamo a Gaza” sono partite da ogni dove per parlare con il proprio corpo. I 12 componenti dell’equipaggio di Freedom Flotilla sono andati a mettere i propri corpi tra la popolazione di Gaza e gli autori del suo sterminio. Le meravigliose città stracolme di manifestazioni anti Trump sono luoghi in cui ci sono corpi che protestano in difesa di altri corpi: quelli ammanettati e deportati perché non conformi rispetto ad una idea di legittimità tanto arbitraria quanto inconsistente. Allo stesso modo, i corpi che disertano le imbarazzanti parate fatte di ego ipertrofici e carri armati, parlano con la loro assenza. Anche questo lo sappiamo tutti, da sempre: l’assenza è assenza di un corpo e anche così quel corpo ci parla, nel bene e nel male. Le accuse che gli adolescenti arrabbiati muovono ai genitori troppo occupati, o che gli innamorati trascurati rivolgono alle loro “anime gemelle” (e invece sono i corpi che si ritrovano, è sempre quella la chimica, ma non ci sembra abbastanza nobile, dobbiamo parlare di anime) non sono rivolte alla mancanza di cure, o di protezione, o di oggetti, sono rivolte ai loro corpi: “non ci sei mai”.
Il rispetto del corpo per costruire la pace
In questo presente di progresso radicalizzato rischiamo di dimenticarci quanto possono fare i nostri corpi, che lungi dall’essere un elemento accessorio e insignificante delle nostre vite, sono l’unica cosa di cui davvero possiamo disporre, l’unico messaggio che non può non essere visto. Portiamoli allora, questi nostri corpi nelle piazze, nelle case, nei luoghi che per i corpi hanno valore: il 21 giugno a Roma per dire con il nostro corpo che non vogliamo un’Europa armata che avrà come bersaglio corpi uguali ai nostri. Portiamoli ai seggi quando c’è da votare, portiamoli al bar per parlare con i nostri amici, portiamoli a scuola (le meste e prevalentemente inefficaci scuole virtuali del periodo Covid avrebbero dovuto farci capire che è innanzitutto con il nostro corpo che possiamo imparare qualcosa), alle riunioni di quartiere, persino alle tanto temute riunioni di condominio. Spieghiamo ai bambini, e se non è tardi anche agli adulti, che il rispetto per l’altro non è una questione teorica, fatta di emozioni e pensieri altisonanti, ma una questione pratica, concreta, che parte dal rispetto per il corpo dell’altro. Perché solo sul rispetto per l’altro, per quell’altro vero e tangibile che sta davanti a noi, si può pensare di costruire quel futuro di pace che oggi appare lontanissimo, perché ci ostiniamo a cercare di pensarlo anziché provare a difenderlo con i nostri corpi.
Credits: l’illustrazione è un collage di disegni fatti da figlie e/o nipoti di amiche. Grazie a tutte!
Grazie Cinzia,
una nuova lucida, profonda riflessione, in sintonia coi tempi e col nostro grazioso Uccidente. Al solito intervengo al margine. Alla mia età si va ai funerali più che ad altre cerimonie. Non ho alcun sentimento religioso, pertanto ascolto con viva curiosità i discorsi rituali delle funzioni. Un argomento particolarmente divertente, per me, è la promessa resurrezione della carne alla fine dei tempi. Un attaccamento alla fisicità e alla materia sconcertante (penso alle reliquie) in un contesto animistico, spirituale. Mi sono chiesto: chissà come pensano di ritrovarsi, i credenti. Nel corpo all’apice delle prestazioni, ventenni, oppure neonati a ripercorrere la crescita sino a una eterna maturità? E se si ricominciasse da dove abbiamo smesso, con due tubi nel naso, il catetere, oltre ad alcuni sensori collegati a una macchina che fa biip per l’eternità? Quest’ultima ipotesi mi diverte alquanto, potendo scegliere opterei per essa. Così, forse, imparerei (e impareremmo) ad avere un comportamento più consapevole e consono a questa sola vita, per molti versi sprecata malamente.