In un incontro dedicato a Sergio Staino, al Mercato Centrale di Torino qualche settimana fa, Adriano Sofri ha detto che sull’ultima “battuta” di Sergio Staino si scriveranno fiumi di inchiostro.
Provo a iniziare io, d’altronde tutti i fiumi iniziano con un rigagnolo che nessuno gli darebbe una lira. Questo pezzo mi gira in testa da un anno, ma non lo lasciavo uscire perché dire le cose significa dar loro una forma di esistenza. Scrivere un addio a Sergio significa ammettere che non c’è più. A questo servono i riti, a farci accogliere gli eventi: ci ho messo un annetto, ma eccomi a salutarti, amico mio.
Sergio è stato per 12 mesi in balia di una malattia che lo ha molto debilitato. Durante questo lungo periodo ha avuto momenti peggiori di altri, ma in quelli in cui andava un pochino meglio riusciva a conversare, addirittura a disegnare, a fare battute. L’ultima vignetta uscita dalle sue riflessioni e realizzata grazie al contributo di suo figlio Michele che ha utilizzato un disegno già esistente, raffigura Bobo che dall’alto di un promontorio guarda pensoso il panorama e dice: “Sono il raccattapalle del mio destino”, cioè la frase che Sergio, in ospedale, ha mormorato agli amici e ai familiari che ogni giorno per 12 mesi l’hanno accudito.
Malattia o no, Sergio era così: la fase precedente a quello che diceva, restava per lo più nascosta. Ci separavano 400 km e una – credo condivisa, mia sicuramente – avversione per il telefono, sicché ci si sentiva e vedeva di rado. Poi le conversazioni, quando c’erano, procedevano a strappi. A volte iniziava lui, perché voleva capire qualcosa di cui riteneva io sapessi di più (poteva essere l’agnello di Zeri, la questione degli OGM, il presidente della Regione Piemonte). Tirava fuori dal cilindro una domanda e spesso mi sentivo come durante le interrogazioni a sorpresa che alcuni professori amavano fare al liceo: Scaffidi, che cos’è l’elettrolisi.
Lui poteva tacere per tutto il tempo in cui io e Bruna, sua moglie, parlavamo di qualunque cosa e solo quando Bruna, rilevando il suo silenzio lo invitava ad unirsi alla conversazione (“Sergio, ci sei?”) lui poneva una questione completamente al di fuori e al di là di quanto si stava dicendo. Cosa stava pensando mentre noi parlavamo non era dato sapere, ma la conversazione ripartiva da lì.
Quali riflessioni abbiano preceduto, quindi, quel “Sono il raccattapalle del mio destino” non lo sappiamo e non glielo possiamo più chiedere.
Ma è una frase – una sentenza – talmente limpida e vera che non possiamo non farla nostra, sempre. Siamo i raccattapalle del nostro destino. Dio non gioca a dadi, diceva Einstein. Ma come la mettiamo col tennis?
Se seguite abitualmente il tennis, o ve ne siete appassionati in questa era Sinneriana, li avrete visti. Hanno età e corporature diversissime, a volte sembrano usciti da poco dalla scuola materna, altre sono chiaramente pronti per la pensione. Gracili o sovrappeso, maschi o femmine, bellissimi o sgraziati, occhialuti o no, i raccattapalle sono lì: soldatini pronti a scattare ogni volta che un giocatore fa una fesseria. Un servizio esplosivo che si schianta contro la rete, un rovescio elegantissimo che finisce in corridoio, una risposta eroica che va lunga oltre la linea di fondo. Loro scattano, corrono come pazzi anche se devono fare solo due metri. Non hanno tempo i raccattapalle, non possono camminare fino alla palla che devono recuperare, devono andare di corsa, si devono affannare. Il tempo è tutto per i giocatori, loro non devono prendere nemmeno un decimo di secondo più del necessario.
A volte, raramente, si beccano qualche pallata, un proiettile a 200 km/h che non viene intercettato dal giocatore e arriva su di loro colpendo una spalla, una gamba, il petto, lo stomaco. Respirano forte, qualche volta cacciano indietro una lacrima e sorridono tirati: tutto a posto, andiamo avanti.
Ci piacerebbe, probabilmente, pensare che in questa metafora della vita noi siamo i giocatori, ma Sergio non ci ha lasciato dubbi. Chi gioca è il nostro destino, ma non è un destino di quelli seri, bravi, infallibili. E’ un destino casinista, che va per tentativi e prova a costruire la nostra storia, ma sembra non avere un piano. E’ lì che entriamo in campo noi. Recuperando la palla e porgendogliela ad ogni nuovo turno di servizio, quasi incoraggiandolo: dai, prova di nuovo.
E’ così che edifichiamo, un punto alla volta, le nostre esistenze. Il nostro destino ci manda in una scuola e noi gli riconsegniamo la palla dicendo: ok, dai la scuola l’ho fatta, ma non è questa la mia passione, prova ancora. Il nostro destino ci offre un compagno o una compagna di vita e noi gli riconsegniamo la palla dicendo: guarda, ci ho provato, ma non è questo il mio amore, prova ancora. Il nostro destino ci offre un posto in cui stare e noi gli riconsegniamo la palla dicendo: guarda, devo andarmene, qui non ci posso stare, prova ancora. Il nostro destino ci prepara per un mestiere e noi gli riconsegniamo la palla dicendo: non è il mio lavoro, davvero, mi sveglio di cattivo umore al pensiero di andare in quel posto, prova ancora.
L’infinita pazienza che ci mettiamo noi è pari solo all’infinita energia che ci mette lui. Lui che a volte ce la fa, e addirittura vince la partita: ci fa finalmente trovare il lavoro che ci piace, o l’amore della nostra vita, o il posto esatto in cui dobbiamo stare. Qualche volta solo una o due di queste cose. Qualche volta nessuna, continua a provare e noi continuiamo a raccattare tutte le palle che sparacchia fuori.
Con Sergio, alla fine, aveva fatto un buon lavoro: il suo mestiere, la sua famiglia, la sua Scandicci e la sua capacità di esserci sempre dove serviva, pronto a capire e poi agire. Anche il problema della vista che lo aveva accompagnato fin da bambino (una volta correndo nell’orto del nonno aveva schiacciato un pulcino: l’avevano sgridato tantissimo e lui, ancora a 80 anni suonati, si dispiaceva del fatto che nessuno, allora, avesse creduto che lui quel pulcino proprio non lo aveva visto) era stata una palla sparacchiata alla viva il parroco. Ma anche quella era stata riconsegnata velocemente da Sergio al suo destino: guarda che io voglio disegnare, dài, prova ancora. Il problema era poi peggiorato e quando Sergio gli aveva riportato la palla, il destino gli aveva affiancato il figlio Michele.
Nel tennis non c’è una durata prestabilita, gli incontri possono durare pochissimo o protrarsi per ore. Quello che non può succedere è il pareggio, ma non solo: non si può nemmeno vincere di un punto. Se sei in vantaggio solo di un punto non basta, devi confermare quel vantaggio, vincere di due punti. Non te la rende mai facile, il tennis. Il tempo è importante, perché le ore son fatte di secondi, secondi in cui i giocatori si stancano, si deconcentrano, si demoralizzano oppure si entusiasmano, si ricompattano, si riprendono, anche se non stanno giocando ma stanno solo aspettando che il raccattapalle faccia il suo mestiere.
Per questo, noi raccattapalle, dobbiamo correre come pazzi, perché l’umore del nostro destino, la sua capacità di farlo un po’ meglio quel tiro sbilenco, la sua resistenza alla stanchezza, potrebbe cambiare da un momento all’altro e se non ci sbrighiamo i secondi passeranno e lui sarà sempre più scombinato.
Hai corso tanto Sergio, sei stato bravissimo. Hai riconsegnato tutte le palle che il tuo destino ha sparato malamente (quelle del lavoro, della famiglia, delle amicizie, della politica, della militanza…), e sei riuscito a fargliele piazzare come si deve. Anche quando ti sei beccato la pallata addosso, ed era quella della salute, hai provato fino alla fine, sei persino riuscito a tornare a casa dall’ospedale e sembrava che finalmente l’avesse capita. Quando, negli ultimi giorni, ha di nuovo mandato la palla in tribuna devi aver detto – chissà, forse persino ridendo – il vaffanculo più glorioso della tua esistenza e hai lasciato perdere.
I raccattapalle consentono le partite, ma non le vincono nè le perdono. Questa volta, però, con questa battuta, hai vinto tu, Sergino caro. Siamo i raccattapalle del nostro destino. Game, set, match.
Brava Cinzia. Un saluto affettuoso.
Grazie. Un abbraccio e a presto.
Cinzia, il tuo è un incipit commovente e incoraggiante!
Grazie, Margherita.