Cosa “devono” mangiare i poveri?

Mi capita spesso di parlare, in situazioni pubbliche, di cibo, e in particolare di cosa intendiamo per qualità del cibo. Cerco, con attenzione e gradualità, di esporre l’idea secondo cui il cibo ci deve nutrire e deve mantenere in salute non solo noi, ma anche l’ambiente in cui viene coltivato, trasformato, impacchettato, distribuito e consumato. Cioè quella che poco per volta stiamo imparando a considerare la nostra casa comune: il pianeta con le sue risorse, dall’acqua alla fertilità dei suoli agli oceani. 

E’ un ragionamento che da oltre 30 anni cerco di offrire a chi mi ascolta, provando ogni volta ad evidenziare le tante occasioni di incoerenza che il sistema alimentare ci offre e delle quali dobbiamo diventare sempre più consapevoli se ci interessa capire qual è l’impatto che abbiamo su questo mondo e come possiamo diventare, in prima persona, portatori di sostenibilità. Gli anni, (i decenni!) passano e le cose da dire aumentano, non solo perchè aumentano i problemi, ma soprattutto perché aumentano le conoscenze a nostra disposizione sia sui fenomeni in sé sia sulle connessioni esistenti tra loro. 

Dove vanno a parare queste mie conferenze o queste lezioni ve lo potete immaginare, non svelo nessun finale a sorpresa: non esiste cibo di qualità che non abbia come prima caratteristica quella della sostenibilità ambientale, perché è su quella che si fonda la possibilità di declinare l’idea di sostenibilità a qualunque livello: economico, sociale, culturale. 

La prima domanda dalla platea

Ecco, da oltre trent’anni a questa parte la prima domanda che mi viene rivolta, dalla platea,  appena chiudo il mio ragionamento è questa: 

“Lei dice che la produzione alimentare industriale è dannosa per l’ambiente e in generale spesso anche per la nostra salute; e che il basso prezzo con cui arriva nei supermercati copre solo una parte dei costi che implica, dato che non copre quelli dei danni fatti lungo la filiera. Però ci sono persone che non si possono permettere di acquistare cibo a prezzi maggiori e quindi è giusto che i supermercati continuino ad offrire le produzioni industriali, anche se sappiamo che ci sono elementi negativi”. 

Ecco, sono trent’anni che ascolto questo tipo di ragionamenti. 

Sono trent’anni che, rispondendo cerco di mettere l’accento sui danni collettivi, che nessuno calcola, nessuno paga, nessuno vuole vedere. Insisto sul fatto che se si accorciano le filiere, ci si rivolge ai mercati contadini, alla vendita diretta, si acquista cibo di qualità a prezzi decisamente simili a quelli del supermercato, se si parla di ingredienti e non di cibi processati. Sottolineo che molto spesso i cibi processati hanno prezzi assurdi, rispetto a quel che valgono e sono davvero, e ai danni che creano, ma essendo piccole porzioni nessuno si scomoda a calcolare l’astronomico prezzo al chilo. Propongo anche l’ipotesi che se ci si impegna a cucinare un po’ di più acquistando più ingredienti e meno prodotti pronti, si risparmia e si mangia meglio. Cerco ogni volta di elencare le mille occasioni di buttare via i soldi in prodotti dannosi per ambiente e salute che i supermercati ci offrono. Provo a confrontare il prezzo di un kg di patate con quello, al kg, delle Pringles, evidenziando il fatto che se abbiamo voglia di patate fritte, nel costo di un kg di pringles ci sta non solo 1 kg di ottime patate, ma pure 1 kg di ottimo extravergine. 

L’elenco dei costi nascosti non basta

Però oggi tutto questo non mi basta più. Perché c’è una questione di fondo, che la domanda che mi viene rivolta non mette in discussione e che invece credo sia ora di spacchettare e criticare. Di più: credo che questo modo di ragionare, così analitico e preciso, sia sostanzialmente inutile. Perché chi interviene con quella domanda sente di essere dalla parte della ragione, si sente un paladino dei poveri che io, intellettuale ecologista e snob, non so nemmeno dove stiano di casa e se lo so poco me ne importa. Lui/lei, invece, sì che è attento/a alle fasce più fragili della società: e farà di tutto per assicurarsi che abbiano sempre dei troiai da portare in tavola. 

Voglio interrompere questo meccanismo, provare ad arrivare al punto passando da un’altra strada.

Se in questo paese, in questo secolo, in questo Occidente ci sono – ora, in questo momento – fasce di popolazione che hanno difficoltà ad acquistare cibo di qualità, io non voglio trovare del cibo più scadente in modo che possa essere venduto a prezzi accessibili per i più fragili, ma voglio contestare esattamente quel dato di fatto, voglio che qualcuno si decida a modificare questa ingiustizia perché altrimenti il divario economico tra i ricchi e i poveri non può che aumentare. E non basterà mettere sul mercato cibo sempre più scadente e sempre meno costoso perché ottenuto con metodi  impattanti, maltrattando gli animali o acquistando materie prime di dubbia provenienza. Così come non basterà il fatto che quel cibo sia sempre comunque “a norma di legge” perché le leggi sono una cosa e la tutela della salute e dell’ambiente – al momento – sono un’altra.

C’è una questione etica e una questione economica

Lo diceva già Kant, e comunque lo sappiamo da noi: tra quel che è legale e quel che è giusto non c’è sempre coincidenza. Ecco perchè le leggi cambiano – e possono migliorare o peggiorare – mentre il concetto di bene comune non lo fa, resta quello che aveva in mente Kant e prima di lui Pericle: “ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto”.

L’assunto che quella domanda non critica è: ci devono essere i poveri, è giusto così. Circa 70 anni fa era opinione diffusa, nella classe dirigente italiana e non solo, che il rapporto tra il salario più basso e quello più alto di un’azienda non dovesse superare la proporzione di 1 a 10. Lo sosteneva Adriano Olivetti, e già Vittorio Valletta, dirigente Fiat il cui stipendio era 12 volte quello del salario di un operaio, faceva scalpore. Ebbene, oggi quel rapporto può essere anche di 1 a 100. Nelle aziende, nelle banche in tutte le situazioni non statali o parastatali in cui c’è qualcuno che può determinare il proprio stipendio e quello degli altri la logica di alzare la propria retribuzione mantenendo invariata quella dei sottoposti ha dominato tutti gli ultimi decenni. 

I prodotti scadenti ad un prezzo “accessibile” non sono quelli che riportano la giustizia in tavola. Sono quelli che arricchiscono gli industriali dell’agricoltura, della trasformazione e della logistica, che hanno come target di mercato esattamente i poveri, i quali avranno tanti difetti, ma nella visione industrialista dell’alimentazione hanno un pregio straordinario: sono tanti. E anzi: più sono meglio è, quindi bisogna evitare che diminuiscano, contestando ogni idea di redistribuzione della ricchezza, ogni idea di equità fiscale, ogni idea di transizione ecologica. 

E c’è una questione agricola

Nel libro “In difesa dei contadini”, Antonio Onorati (edizioni TerraNuova, 2024), che consiglio a tutti di leggere al più presto, scrive:

“La svolta agroecologica dei sistemi agricoli e alimentari è tanto necessaria da non essere più neanche una scelta. E’ la cosa giusta da fare. Non si tratta di un semplice adattamento o, come si dice ora, di resilienza. Si tratta di un cambiamento radicale che deve modificare profondamente il modo con cui il cibo viene prodotto e reso disponibile per tutti, anche per chi non dispone di molte risorse finanziarie. Alcuni dei sistemi agricoli non hanno la possibilità di modificarsi radicalmente. L’agricoltura industriale, specializzata, povera in lavoro e ricca di macchine, non ha nè l’interesse nè le capacoytà di realizzare questa svolta. L’agricoltura contadina, e l’economia che le corrisponde, ha gli elementi necessari per continuare a progredire nel suo cammino verso una produzione in armonia con la natura e non contro di essa. E’ caratterizzata da un elemento fondamentale, si basa sul lavoro e sull’intelligenza di chi lavora”. 

Per chi lavorano quelle manine alzate

Forse quella manina caritatevole che si alza dalla platea per ricordare a me che i poveri devono poter continuare a comprare cibo poco nutriente, poco interessante, poco salutare e poco sostenibile, dimentica, tra le tante cose, anche per chi sta lavorando. Non si accorge che il meccanismo che sta difendendo è quello che penalizza innanzitutto gli agricoltori che lavorano per bene, che stabilizza le condizioni che mettono a rischio la salute pubblica e quella del pianeta, e che perpetua invece il meccanismo di base del capitalismo: grandi vantaggi per pochi, sempre di meno e sempre più ricchi, mentre il danno collettivo viene ripartito su tutti, ma a farne davvero le spese saranno quelli con meno strumenti economici – non solo per acquistare cibo, ma anche per proteggere la propria salute, e più in generale un livello accettabile di qualità della propria vita. 

Detto questo, spero che quelle manine continuino ad alzarsi e che quei ragionamenti vengano comunque espressi: ho pazienza, ripeterò le ragioni dell’agricoltura di qualità tutte le volte che sarà necessario. 

 

11 risposte a “Cosa “devono” mangiare i poveri?”

  1. grazie per la perseveranza con cui continui a ricordarci che siamo parte di un grande organismo e che sia nostra responsabilità proteggerlo e farlo funzionare.
    siamo custodi e non padroni…

  2. applausi applausi applausi

  3. Alberto Fatticcioni dice: Rispondi

    Grazie Cinzia.
    Sempre più poveri e sempre meno contadini…sarà un caso?

    Il problema è che noi “agricoltori contadini” siamo sempre meno, sempre più vessati dalle varie normative e sempre più in difficoltà per la frammentazione del tessuto agricolo.
    Anche in Toscana oramai per trovare “un contadino” bisogna spostarsi di chilometri e sorvolare la miriade di tenute feudali e agrocapitaliste…

    Spero che la “povertà culturale” della contemporaneità non ci travolga.
    Un abbraccio

    1. No, non è un caso. Purtroppo è il risultato di politiche pubbliche orientate al profitto privato.

  4. Carissima Cinzia,
    grazie, condivido ogni parola. Aggiungo che non sono solo i prodotti delle colture e degli allevamenti, ma anche tutti gli artefatti inerti che affollano le nostre case e i centri commerciali, e che noi mettiamo avidamente nei carrelli, che rispondono alle logiche che hai descritto. E per questa marea di ciarpame non ci sono manine a porre questioni.
    Un periodico degli imballaggi, diversi anni fa, riportava che dei prodotti della maggiore industria alimentare italiana oltre il pranzo e la cena, solo il ventotto percento in valore è edibile, il resto è imballo, gadget, rifiuto. Nel settore dei prodotti chimici per la casa, il consumatore che pensa di acquistare l’eliminazione delle macchie più tenaci, oppure la morbidezza della lana o il profumo di fresco, compera invece un flacone in politene ad alta densità riempito con acqua contenente un agente chimico, ad esempio l’ipoclorito di sodio diluito al quattro percento. Valore molto vicino alla percentuale di costo reale di quella merce. Per non dire delle acque minerali. Pensiamo di acquistare l’eccellenza per detergere il viso, fare colazione, apparire sempre giovani e in salute, viaggiare comodamente in strade deserte che si affacciano su panorami incantevoli, invece acquistiamo sogni evanescenti e una enorme scia di devastazione ambientale. Anche per queste, come per tutte le merci, vale la stessa regola: i poveri acquistano merci poco efficaci, spesso dannose (penso ad esempio ai cosmetici) il cui valore d’uso è sempre molto marginale, mentre i ricchi pagano cifre smisurate per acquistare merci sostanzialmente assimilabili ma confezionate in modo molto più spatuss, in punti vendita esclusivi, nei quali solo la messa in scena giustifica il prezzo. Il meccanismo perverso del capitalismo è totalmente pervasivo. Se guardiamo agli avvenimenti degli ultimi giorni possiamo pensare che siamo solo agli inizi di una nuova fase, ancora più micidiale.

    1. Grazie Rodolfo per queste riflessioni, sempre preziose. Non conosco il mondo della cosmesi o dei detersivi, ma ci tengo a dire che la differenza tra un cibo di qualità (nel senso organolettico, ambientale, nutrizionale ed etico) venduto al suo giusto prezzo e un prodotto edibile altamente processato o un ingrediente derivato da un’ agricoltura che avvelena il pianeta non è solo questione di confezione e comunicazione. È questione sostanziale. E se il diritto al cibo sancito nei documenti internazionali dal 1948 in avanti, se non è diritto a cibo di qualità allora non è più un diritto. È un privilegio per chi riesce ad averlo, e uno strumento di oppressione in più per chi rimane senza.

      1. Grazie a te, Cinzia, per la perseveranza. Ti rubo ancora un po’ di spazio.
        Per quanto attiene ai cosmetici il prezzo di vendita è condizionato dal canale di distribuzione. A parità di principi attivi si possono avere ricarichi che vanno dal doppio e sino a 10 o 15 volte il prezzo di vendita del produttore a seconda del tipo di negozio. Per i cosmetici di larghissima diffusione l’incidenza della pubblicità sul prezzo di vendita è spesso molto maggiore di quella della confezione e del prodotto stesso.
        Una applicazione nata da una start-up francese, Yuka, fornisce indicazioni abbastanza obiettive sui componenti dei cosmetici e dei prodotti alimentari, e sulla loro possibile nocività, fornendo un punteggio orientativo da molto buono a scarso. Nonostante non sia convinto totalmente dell’attendibilità dell’applicazione, trovo interessante come il prezzo non sia un parametro utile alla valutazione.
        Cosa mettiamo nel carrello della spesa? Fra contributi Conai, imballaggi di vendita e logistici, espositori ecc. –nonché il trasporto, i ricarichi dei grossisti e della catena di appartenenza del punto vendita– la parte edibile, oppure utilizzabile come cosmetico o detergente, è quasi sempre una parte molto marginale, in valore, della spesa complessiva. Su cento euro di spesa quello che non buttiamo via non supera i quaranta. Gia cinquant’anni fa Fausto Amodei ha descritto, con una divertente ballata (parla di fagioli) reperibile da YouTube, –Dal produttore al consumatore–, la logica e le contraddizioni del sistema.

  5. Quanto mi ci ritrovo in quello che scrivi! La fatidica domanda sui poveri che non possono permettersi il cibo “buono pulito e giusto” è un grande classico anche nel campo dei giornalisti, e devo dire in particolare da parte di quelli che scrivono per testate di sinistra, di ogni Paese. Centinaia di interviste che ho seguito e organizzato hanno visto il riproporsi di questo argomento, senza che, a chi lo poneva, sfiorasse il dubbio di star propugnando il mantenimento di uno status quo di ingiustizia sociale aberrante. Hai dato con questo articolo la migliore risposta che abbia sentito. Brava.

    1. Grazie, Paola, davvero. Lavoriamo insieme per spacchettare quegli argomenti che sembrano vincenti e non lo sono quasi mai, con pazienza.

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