Made in Italy, how are you?

Dice che non si può chiamare “Milano” un’auto costruita in Polonia, perché confonderebbe i consumatori facendo credere loro che l’auto sia “Made in Italy”. Forse siamo diventati, noi consumatori, più facili da ingannare, perché abbiamo attraversato decenni di Ford Capri senza farci venire il dubbio che ci fosse una filiale produttiva della Ford tra la Piazzetta e la Grotta Azzurra e invece adesso, come leggiamo “Milano” ci convinciamo che Stellantis, multinazionale con sede nei Paesi Bassi, che detiene il marchio Alfa Romeo, abbia fatto tutto sull’Italico suolo.

Sensibilità geografiche intermittenti

Eppure usiamo tutti i giorni una cosa che si chiama Amazon senza pensare che la sede stia sulle rive del fiume più lungo del mondo che attraversa una quantità di paesi sudamericani, nessuno dei quali rivendica diritti su quel brand. Acquistiamo regolarmente salame Milano senza chiederci da dove arrivino le carni con cui è prodotto né – men che meno – come siano stati allevati quei maiali. Soprattutto senza che i nostri ministri dell’agricoltura si siano mai scomposti al pensiero di trarre in inganno i consumatori, come d’altronde non si scompongono quando approvano i disciplinari di Igp come la Bresaola della Valtellina che prevede l’utilizzo di carni di bovini brasiliani, zebù per la precisione.

“Fatti ‘a nomina e cùrchiti”

A me l’idea che le parole e i fatti dovrebbero corrispondere, non dispiace affatto, specialmente quando le parole appartengono a luoghi, dunque storie e comunità, e usano a fini commerciali le reputazioni che questi hanno costruito nel tempo. La costruzione di una reputazione è cosa lenta ma vale la pena di investirci perché poi dura a lungo, spesso più a lungo della sostanza. In siciliano si dice “Fatti ‘a nomina e cùrchiti”, ovvero costruisciti una buona reputazione e poi puoi andartene a dormire, il più è fatto.

Quanto dura la reputazione senza la qualità?

Per questa ragione credo che dovremmo iniziare a domandarci: quanto può durare, ancora, la buona reputazione del Made in Italy? Se i consumatori (quelli italiani e quelli del resto del mondo) diventano sempre più cittadini e sempre meno consumatori, se imparano a considerare l’idea di qualità nella sua completezza (sostanziale, ambientale, sociale, culturale), quanto ci metterà il colosso del Made in Italy a mostrare le prime crepe nei suoi piedoni d’argilla?

Quanto ci metterà il prestigioso vino di Langa a diventare sinonimo di sfruttamento di lavoratori stagionali, segnatamente dell’est europeo? Quanto ci metterà uno dei pilastri della dieta mediterranea, il pomodoro del sud Italia, a diventare sinonimo di degrado e miseria, collegato alle condizioni in cui vivono e lavorano i migranti africani? Quanto ci metterà l’eleganza senza tempo delle borse di Armani ad agganciarsi al sordido qui ed ora della manodopera cinese sottopagata, e non in Cina né in India, ma nella civilissima Milano, il cui nome non si può oltraggiare utilizzandolo per un’automobile prodotta in Polonia?

Noi che ci occupiamo di agricoltura da tanto tempo abbiamo investito parole ed energia per condannare il cosiddetto “Italian sounding” che viene accusato delle peggiori nefandezze, in primis quella di sottrarre reddito al meritevolissimo Made in Italy. Arriveremo a preferirlo? Se truffa dev’essere, che almeno sia conclamata.

Quel film l’abbiamo già visto

Il Made in Italy, se davvero lo vogliamo difendere, se vogliamo citarlo in ogni incontro pubblico in cui ci sia un sia pur minimo accenno all’economia della nazione, allora – prima –  facciamolo seriamente. Perché un Made in Italy che sfrutta, inganna, froda, sottopaga, prevarica, inquina ed evade le tasse già ce l’abbiamo, si chiama Criminalità Organizzata e fa affari da tempo a più livelli, in svariati settori e con diverse specializzazioni: abbiamo le agromafie, le ecomafie, la mafia dell’edilizia…non ci manca nulla. 

Guardiamolo in faccia

Prima di imbizzarrirci ogni volta che un termine geografico italiano viene usato a sproposito, guardiamolo in faccia il nostro Made in Italy fatto da rumeni, senegalesi, cinesi, indiani, albanesi, marocchini, egiziani, ucraini e chiediamogli: come stai?

 

 

Foto: https://www.crea.gov.it/

6 risposte a “Made in Italy, how are you?”

  1. Brava Cinzia, condivido in pieno la tua sacrosanta incazzatura. è ora di finirla con questa vergognosa ipocrisia.

  2. Grazie Cinzia per quest’attenta analisi che sveglia la conscienza informando con i fatti opportunamente messi in fila. D’altronde qualcuno ha detto che: “una civiltà si distrugge con facilità solo se è già marcio dall’interno…” Viva la tutela del Made in Italy. Quella autentica, etica, sincera e trasparente… che Dio ci tolga di mezzo strumentalizzazione, fanatismi, populismi anacronistici… quelli sì che indeboliscono il lavoro di tanta gente che nella storia hanno saputo dare nascita alle tradizioni spesso divenute Made in Italy, orgoglio di tutta una discendenza, a volte, innovatrice ma spesso disantente. Fortunatamente “Ci leggiamo qua”!

    Anselme

    1. grazie, Anselme! Non è un lavoro da dèi ma da semplici elettori…ce la faremo?

  3. Alcuni anni fa, al Salone del Mobile di Milano ho notato una ragazza keniota che indossava una camicetta a motivi floreali. Hanno attirato la mia attenzione non tanto la sua giovanile avvenenza o la qualità cromatica ma le due controspalline, le due strisce di tessuto cucite all’inizio delle maniche e fermate sulle spalle con un bottone, evidente retaggio della dominazione militare coloniale inglese. Ciò che inizialmente rappresentava il dominio si è trasformato in decoro di moda.
    Succede così che un paese che a parole difende l’italianità non vede l’ora di mettere in mostra l’adesione al modello culturale d’oltreoceano inserendo nel proprio linguaggio una infinità di termini inglesi (alcuni inventati come smartworking, che non esistono nell’originale), e denomina il massimo organismo dell’amministrazione pubblica Ministero del Made in Italy. Capisco che “made in Italy” sia entrato nel linguaggio comune allo stesso modo delle spalline militari inglesi in Africa, e che non abbiamo forse un modo altrettanto efficace per dirlo in italiano, ma tant’è. Anche chi difende il cibo italiano dall’italian sound si chiama Sloowfood. (E io ho passato una intera mattinata a discutere con l’assessore, all’anagrafe per rinnovare la carta d’identità, quando compariva ancora l’attività lavorativa, e in Comune non avevano nell’elenco dei mestieri la voce “designer” e non sapevano cosa scrivere).
    È emblematico che un governo di destra e colmo di nostalgie per un passato non proprio come rimembrato –Dio Patria Famiglia Ordine Armamenti e Made in Italy – non abbia trovato una denominazione più coerente per il suo Ministero o per il Liceo annunciato e in pratica scomparso.
    Siamo così. Basta fare un giro a Vinitaly o, in questi giorni, al Salone del Mobile per vedere il design defunto e quanta fuffa siamo capaci di produrre made in Italiy e con international sounding.
    Le brigate rosse sono state facilmente debellate (volendo si fa, e per fortuna), come mai il caporalato, la mafia, le stragi sui posti di lavoro, l’evasione fiscale no? Forse è questo il vero Italian sounding col quale siamo realmente in sintonia?

  4. Grazie, Rodolfo. Ti correggo solo su una cosa: Slow Food è un’associazione internazionale presente in decine di Paesi anche se la sua base è in Italia. si occupa di cultura e politica alimentare, in ogni Paese secondo le peculiarità presenti e globalmente per quel che riguarda le (tante) istanze trasversali. Per questo non ha un nome italiano. Un abbraccio.

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