Tutti uniti contro i più piccoli?

Sommessamente, mi sarei un po’ stufata di questa quotidiana litania contro i giovani.

Quelli che vanno a scuola perché sono ignoranti.

Quelli che non vanno a scuola perché sono sfaticati.

Un nemico facile facile

Sembra che la mia generazione (insieme a quelle contigue) abbia trovato un nuovo nemico. Uno facile facile, visto che quelli che nel corso degli ultimi cinquant’anni le son passati sotto il naso non è riuscita né a fermarli né – tantomeno – a batterli. Anzi, se mi posso permettere, mi pare che tanti di noi abbiano attivamente contribuito a renderli ancora più forti e dannosi.

Siamo effettivamente diventati bravini ad allarmarci per le cose piccole ignorando serenamente le cose enormi che le hanno generate. Per esempio, noi adulti siamo qui che ci stracciamo le vesti perché rischiamo di non avere più la nostra dose quotidiana di fertilizzanti e dunque la nostra agricoltura sarebbe a rischio. E non ci preoccupiamo del fatto che – evidentemente – abbiamo costruito un sistema agroalimentare drogato, che senza fertilizzanti non garantisce più i prodotti che ci servono. Non è di questo che ci dovremmo occupare, ripensando l’intero sistema di produzione?

Con i ragazzi più o meno succede la stessa cosa.

Diamo addosso ai quindicenni che non sono in grado di leggere e intendere un testo di media difficoltà, tralasciando il piccolo particolare che i loro insegnanti… siamo noi adulti e no! Non vale adesso dire che non bisogna generalizzare. Perché se si può generalizzare sui ragazzi allora si può generalizzare anche sugli adulti. Le regole del gioco vanno rispettate anche da chi le fa.

Insegnare non fa curriculum

Ci lamentiamo degli universitari che hanno scoperto che ascoltare (si spera) in mutande una lezione che inizia online 15 minuti dopo il suono della sveglia è più comodo che alzarsi per tempo, rendersi presentabili e uscire, prendere un mezzo e presentarsi puntuali a scuola, dove qualcuno ti guarderà in faccia per vedere se stai seguendo e capendo e tu non potrai spegnere la telecamera dicendo che se no la connessione rallenta. Un posto in cui potrai dire la tua, accogliere le energie collettive del gruppo classe, far scattare sinapsi che altrimenti non scatteranno. Tuttavia, noi adulti continuiamo a permettere le lezioni in streaming, dicendo “lo facciamo per loro”. La verità è che in fondo noi docenti a scuola i ragazzi non abbiamo tanta voglia di incontrarli, non ce ne importa veramente che capiscano o seguano la lezione. Ci importa che la lezione finisca il più in fretta possibile (più gente c’è in classe e più si corre il rischio che alla fine dell’ora qualcuno si fermi per chiederti un parere, una tesi, per discutere di un libro letto) e poi ci si rivede all’esame, se hai studiato, bene, se no si riprova al prossimo appello.

Il lavoro quotidiano dell’insegnamento, quel presentarsi in classe preparati e disposti all’ascolto, quel provare, ogni giorno e ogni anno, a dire le cose in modo adeguato, aggiornato, preciso e attento ad ogni variabile, quello non fa curriculum. Fanno curriculum le pubblicazioni (ma quanti dei nostri studenti le leggono? Sono per loro?), le partecipazioni ai convegni (dove gli studenti spesso non ci sono), i progetti finanziati. Le lezioni, quel quotidiano cesellare, sono una roba da togliersi di torno alla svelta.

Redistribuzione della ricchezza, questa sconosciuta

Ci scandalizziamo del fatto che i ragazzi e le ragazze che si presentano ad un colloquio di lavoro per un posto da cameriere/a o cuoco/a abbiano l’ardire di chiedere (perché se non lo chiedono, comunque, non glielo dicono) quanto prenderanno di stipendio e quanto tempo libero avranno. Ma non ci scandalizziamo, non ci vergogniamo di aver costruito un sistema paese in cui non esiste redistribuzione del reddito. Che i poveri siano sempre più poveri e più numerosi e i ricchi siano sempre di meno e sempre più ricchi, ci pare un incidente, se non un destino. Invece è un disegno che abbiamo contribuito a definire evadendo le tasse, gridando al tradimento del popolo ogni volta che si parla di tasse di successione, rimandando al mittente persino i contributi una tantum per i redditi superiori ai 75mila euro. Quelli che più gridavano contro quest’ultimo provvedimento hanno redditi ben inferiori a quella cifra, ma qualcuno (indovina chi?) gli ha fatto credere che dovevano dire di no, perché il passo successivo sarebbe stato quello di chiedere la stessa cosa alle fasce più basse.

Se il reddito di cittadinanza, il salario minimo, le tasse, la tassa di successione, i contributi una tantum, non vanno bene; se non va bene che si paghino i giovani in modo decente (e non si devono permettere nemmeno di chiederlo) allora che cosa va bene?

Vanno bene i ragazzi tra i 20 e i 30 anni che passano da un “tirocinio” all’altro per anni con stipendi che non superano i 500 euro grazie ai quali tanti enti pubblici sostanzialmente legalizzano lo sfruttamento dei lavoratori più giovani? Va bene la differenza abissale, alla quale non si pongono limiti, tra lo stipendio di un dipendente di fascia più bassa e quello del vertice della sua azienda? Come mai invece di rivendicare equità e – lo ripeterò fino allo sfinimento – meccanismi di redistribuzione del reddito, ci piace guardare agli immensi patrimoni (e all’immenso potere che ne consegue) di chi non lascia che la ricchezza venga redistribuita? Forse perché ci piace sognare di diventare come loro? Non succederà. Loro sono l’1% della popolazione mondiale, non è di loro che si dovrebbe occupare la politica, loro hanno già tutta la protezione possibile.

Smettiamo di dare addosso ai giovani, perché anche se nelle nostre società “progredite” sono sempre di meno (e dunque elettoralmente sempre meno corteggiati) sono in grado di bloccare interi comparti e lo stanno dimostrando. Facciamo in modo che le scuole funzionino come si deve, che i centri di formazione siano cose serie e proponiamo occupazioni con “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità” del loro lavoro.

Per chi se lo stesse chiedendo, la citazione è tratta dalla nostra Costituzione, art. 36.

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