CARA MONICA – Basta capricci, cambiamo gioco

ci leggiamo qua

Cara Monica,

come te la passi nella fase 2?

Io faccio la dura e dico che per me non è cambiato niente. Continuo a scrivere e insegnare da casa, ho solo aggiunto qualche pedalata fino al comune contiguo al mio, dove l’affetto stabile che 56 anni fa mi ha partorito innaffia le sue rose e ringrazia la gallina quando riceve in dono un uovo.

Non mollo la mascherina nemmeno sotto tortura, e se gli occhiali si appannano un po’, non è detto che sia un male.

Ma un po’ mi manca

La verità, però, è che sono un po’ combattuta: da un lato mi piace questa sensazione di riconquistata libertà, anzi, in qualche modo meno ne approfitto e più mi piace. Stare a casa perché lo decido io e perché ho delle cose da fare, ma sapendo che potrei uscire: questo, per me, assomiglia alla normalità più delle uscite continue e reiterate.

D’altro canto già mi manca un po’ quel movimento in levare del lockdown, in cui anche l’aria, in attesa del movimento in battere che non arrivava, sembrava ferma e pronta a ricevere i nostri pensieri per farne qualcosa di buono. Quelle giornate sempre più lunghe, addirittura con il cambio dell’ora a metà strada, e quella luce, così tanta e così bella da sembrare un dispetto.

Preferivo la pioggia, o la notte, quando restare in casa prendeva il suo senso consueto.

Là fuori fanno i capricci

Ora la porta è stata socchiusa e si sentono i primi strepiti: un sacco di gente, là fuori, fa i capricci.

Dire “faremo come prima”, “torneremo alla normalità” è proprio come fare i capricci, come se pretendessero di fare un “Ctrl Z”, un “undo” e annullare quello che è successo ma non ci piace.

Invece le cose che succedono ci cambiano per sempre. Piccole, grandi, belle, brutte. Le cose succedono proprio perché cambiamo e, per quanto possa sembrare pleonastico ribadirlo, una volta che succedono, sono successe.

Siamo dopo. Anzi, per la verità siamo ancora durante. Ma se da qualche parte ci dobbiamo proiettare è nel dopo, non nel prima.

Li spaventa così tanto provare a immaginare un dopo, ammettere che sono cambiati e che adesso si devono reinventare tutto da capo che, piuttosto, pestano i piedi e dicono che tutto deve tornare come prima. Come bambini che strillano “non voglio!” quando un giocattolo si è ormai rotto.

Non ci resta che deragliare

Cambiare fa paura. Chi oggi vuole tornare “al prima” fa parte del cuore del sistema, quello che non vuole e non sa cambiare, perché non sa come immaginarselo, da solo, il cambiamento. A questo servono le periferie, a fare arrivare fino al centro i cambiamenti senza i quali tutto il sistema morirebbe.

Quando va tutto bene, questo succede con tempi fisiologici e il cambiamento arriva in modo accettabile, graduale o al massimo con qualche piccolo strappo.

Ma questa volta un po’ di cose sono andate male, sicché il cambiamento deve arrivare alla svelta: non c’è il tempo che servirebbe alle periferie per filtrare il cambiamento, eliminando quel che potrebbe disturbare il centro. Il centro, questa volta, deve fare la cosa che lo spaventa di più: deragliare, uscire dalla strada conosciuta e camminare dove la strada non c’è, unirsi alle periferie.

La strada si fa andando

Il centro siamo noi. Siamo noi privilegiati, noi che un lavoro, un bar, un ristorante, una piccola o media impresa ce l’abbiamo. Noi giornalisti, insegnanti, parrucchieri, industriali, medici, politici, musicisti, idraulici.

Siamo noi che dobbiamo lasciare la strada che conosciamo così bene e ci consola così tanto e iniziare a muoverci dove strade non ce ne sono. Inventarci i sentieri, un passo alla volta, un sogno alla volta, fino a quando i sentieri si formeranno, grazie alle orme di tutti quelli che lasceranno la strada maestra.

Lo ha scritto così bene Antonio Machado: caminante, no hay camino,/ se hace camino al andar (viandante, non c’è cammino, /il cammino si fa andando). E’ vero sempre: la strada si fa camminando.

Il primo passo è proprio quello di dirlo, dirselo, che la strada che abbiamo costruito e così strenuamente difeso era quella sbagliata.

La natura, il denaro, il cibo, la scuola, la sanità

Bisogna dirselo che questo uso insano della natura, questa indecente avidità, queste città sempre più invivibili, questa agricoltura e questo allevamento di matrice industriale, questa cosa che ammala, inquina, nega diritti e crea dolore e malattia e fame – e che bestemmiando continuiamo a chiamare cibo – ecco, bisogna dirselo che tutta questa roba qua è il modo sbagliato.

Dirsi che la scuola che finora abbiamo massacrato in ogni modo va curata, ripresa, riamata e riportata a fare il suo mestiere, con dignità, rispetto, allegria.

Che il servizio sanitario pubblico, a partire da quello di territorio, deve essere al centro dell’attenzione dello Stato perché sul diritto alla salute – o forse bisognerebbe dire il diritto alla cura, ‘ché la salute puoi anche non averla senza colpa di nessuno, ma la cura la devi avere –  si fonda la possibilità stessa della democrazia.

Dirsi e dire – gridando – che il tandem profitto individuale – danno collettivo ha creato abbastanza guai ed è ora di cambiare strada; ma velocemente, prima che i nemici del cambiamento abbiano il tempo di far finta di cambiare. A questo servono le rivoluzioni: ad accelerare i cambiamenti, perché in certi momenti o si cambia velocemente o non si cambia affatto e si muore.

Fantasia, coraggio, cura del bene comune

E’ il momento di fare cose straordinarie con toni e facce normali: come la dottoressa che ha scoperto il paziente 1 in Italia solo quando ha deragliato dal protocollo, ha fatto come “non si doveva” fare, perché si è resa conto che la strada normale non funzionava.

Come Ilaria Capua e Fabiola Gianotti che con una telefonata tra la Florida e la Svizzera hanno fatto la rivoluzione: un centro di elaborazione dati scientifici in open access, il più grande del mondo, a disposizione di tutti, per far crescere la conoscenza e grazie alla condivisione. Sharing is caring non è mai stato così vero

Come i tantissimi volontari, professionisti, associazioni che hanno fatto il contrario di quello che le loro paure e i loro interessi personali suggerivano. Sono quei piccoli miracoli che trasformano una cosa nel suo contrario: l’acqua in vino, la paura in speranza, la disperazione in progetto, la scarsità in abbondanza.

Rimontiamo i cocci e inventiamo un gioco nuovo

Fantasia, coraggio e cura del bene comune: questo serve, adesso, subito e da parte di quanti più possibile. Certo, non saranno tutti, ma iniziamo a contarci per capire quanti di noi, invece di farsi risucchiare dal centro che strepita, andranno ad affiancare le periferie che cantano, inventano, sperimentano. Smettiamo di gridare “non voglio”, guardiamo bene in faccia i cocci di tutti i giocattoli rotti – perché sono rotti e i nostri capricci non cambieranno questo fatto – e proviamo a rimontarli in un altro modo. Verrà fuori un giocattolo nuovo, di tutti, che nessuno di noi aveva ancora immaginato e del quale bisogna scrivere, insieme, le istruzioni per l’uso.

A presto

Cinzia

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