CARA CINZIA – Se il Virus ci pesta la gonna

Ciao Cinzia!

Leggendoti e rileggendoti dalla prima riga all’ultima, mi hai fatto tornare in mente una delle prime interviste “faccia a faccia” che mi commissionò Bia Sarasini da direttora di NoiDonne a quasi-inizio del mestiere. Atterrai affannata nell’elegante studio in centro città di un importante sociologo che all’epoca teorizzava “la fine del lavoro”. Ricordo con tepore la cortesia e accuratezza con cui rispondeva alle mie domande serrate, da sincero e appassionato democratico. Ricordo il mio imbarazzo goffo nell’entrare, con la borsa da lavoro sformata, il telefonino affaticato e il registratore non di ultimo modello, in quel tempio degli studi sociali tra gallerie ben ordinate di volumi non ancora tutti accessibili con un clic, poltrone e scrivania d’epoca ma ben vissute, premi e pezzi di storia in cornici d’antan.

Io ci volevo credere

La narrazione era di quelle affascinanti: la digitalizzazione avrebbe “alleggerito” il lavoro, avremmo tutti lavorato meno, ma meglio, più in casa che nei formicai fordisti, con contratti più adatti ai nostri tempi di esistenza che si sarebbero riempiti di volontariato, formazione, partecipazione attiva. Vita, insomma. Lo ascoltavo raccogliendo a matita dati, bibliografie, referenze di documenti internazionali. Volevo davvero credere che sarebbe stato quello il mio futuro. Ma c’era un “ma” che mi strillava nelle tasche. Io, sposata da un paio d’anni con un (all’epoca) contrattista della conoscenza con luminose (poi realizzate, con merito) prospettive di carriera, ero appena rimasta con 10mila lire sul conto, a metà mese, dopo aver pagato l’ultima, nostra, bolletta. Un successo poco patinato, strappato con fatica e una meticolosa organizzazione di un precariato giornalistico e di terzo settore appassionati, presso aziende editoriali e associazioni di un arco costituzionale che andava dal centro cristiano alla profonda sinistra. Ero come mi voleva il professore: “imprenditrice di me stessa” real time, già digitalizzata e munita di telefonino, mail e modem quando ancora la maggior parte del nostro lavoro si faceva dettando gli articoli dalla cabina più vicina al luogo del fattaccio, o inviando al capo via fax gli articoli battuti a macchina. Ero smart, multilingue, mobile, flessuosa e flessibile. Ma, a rigor di bilancio, povera.

Produrre senza riprodurre

Per arrivare a fine mese dovevo comporre più “grigi” possibili e il tempo libero lo dovevo monetizzare con uffici stampa e servizi un tanto al chilo. Anche il tempo della “vita” troppo di vita non era: in 40 metri quadri di professioni post-fordiste e di contratti creativi, tutti ancora da montare, vivevamo quel bel matrimonio che fu come una fabbrica a domicilio. Mettevamo a valore con gentilezza quel poco spazio che occupavamo ciascuno, per produrre senza riprodurre, perché non si poteva, non c’era il tempo, e, alla fine, nemmeno più la forza e il coraggio. Non ero un caso isolato: tra compagne era tutto un correre, un sostenersi, incastrarsi per spingerci a vicenda, per non lasciare indietro, poco a poco, anche la voglia del sogno e delle battaglie che condividevamo. Sole, in coppia o in multipli, anche quelli complici nella resistenza, tesi alla prestazione. Un’economia dei vuoti, più che una pratica dell’abbondanza.

Covid, nun te temo

Il contratto, quello vero, capiente, che avrei presumibilmente avuto dieci anni prima a parità di impegno e fortuna, non è mai arrivato. Nel 2018, però, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa da commercio e sviluppo Unctad ha inchiodato alla realtà dei numeri quel “ma” stonato di vent’anni prima. Il lavoro non era mai finito: ci avevano solo pagato tutti meno e a condizioni peggiori. Anche a noi, wannabe-imprenditrici in realtà semplici parasubordinate, è stata sfilata dalle tasche la quota più alta di Pil nazionale tra i Paesi Ocse. Un 12% di ricchezza un tempo prodotta dagli stipendi degli italiani, che dai primi anni Novanta a oggi si è infilata nelle tasche dei nostri padroni, loro sì imprenditori anche di noi stessi, come reddito da Capitale. Negli Usa questa percentuale è stata del 4%, in Germania del 5%, in Francia del 10%. Tutti gli altri lavoratori dei Paesi sviluppati, insomma, sono stati meno spremuti di noi. Pensa, poi, che in media una donna italiana guadagna circa un quarto in meno rispetto a un uomo con la stessa qualifica, e che con la precarietà la maggior parte di noi ha dovuto rinunciare anche a fette consistenti di ammortizzatori sociali riconosciute ai dipendenti. Questo detto, concordo con te che il nostro mantra oggi dovrebbe essere “Covid nun te temo”. Perché per la maggior parte di noi italiane postmoderne la gestione della crisi è una condizione quotidiana, non transitoria dell’esistenza.

Al limite, prendiamolo in braccio

Non siamo gli angeli del focolare, dei ciclostili, né dei cateteri di nessuno. Ma abbiamo ragion pratica su piume, carbonella, inchiostro e pannoloni come nessuno dei nostri compagni di viaggio. E’ per questa specifica capacità di sopravvivenza che dovremmo parlare e far parlare più di noi in questi giorni, hai ragione. E prendere la parola insieme, senza chiedere il permesso al babbo, al presidente, al capo popolo o alla task force del premier. Io, come tante altre tra noi però, nonostante capisca la necessità generativa della risposta post-Covid indicata da Giampiero, fatico a sentirla mia non essendo madre. Lo sento estraneo quando l’ennesima crisi occasionale fa scoppiare, spero per sempre, quella bolla narrativa che probabilmente avrebbe ingoiato anche me, se non avessi avuto bollette e conti a pesare in tasca e a tenermi coi piedi per terra. L’idea che la cura discenda, sia legata o si impari di necessità con la generazione, secondo me, “ci” ha sempre fatto considerare i maschi che la praticano una sorta di generosi benemeriti, invece che esseri umani senzienti e a termine, come tali incaricati della propria metà del cielo e della più prosaica terra. E’ finita, ragazzi: nessun virus ci deve pestare più la gonna.

Se non riusciremo a allontanarlo, sono sicura: sapremo prenderlo in braccio.

3 risposte a “CARA CINZIA – Se il Virus ci pesta la gonna”

  1. Ahimè il virus ci pesterà la gonna, perchè come al solito saranno le donne a pagarla più cara, sta già accadendo, le scuole non riaprono, i bambini a casa, le madri che devono sacrificarsi, di questo si deve esserne coscienti, che si sia madri o meno. E certo noi siamo abituati al multitasking ma esserne abituate non vuol dire accettarlo, perchè diventa una pessima abitudine, anzi una vera fregatura, insomma questa cosa del multitasking tentano di farcela mandar giù come un privilegio, un vanto, le donne sono le più brave. Non facciamoci fregare, è solo uno slogan, come lo è l’inflazionato Women Can Have It All, io non sono interessata ad avere tutto sono interessata ad avere ciò che voglio, che non è e non è mai stato tutto. Sono però d’accordo con Giampiero, l’uscita da questo tunnel è possibile solo prendendosi cura con amore del mondo, e questa è una delle cose che noi donne possiamo insegnare perchè siamo le sole nutrici, un termine che al maschile non esiste. Gli uomini possono cucinare, noi nutriamo che implica appunto attenzione, cura, amore.

    1. “Non facciamoci fregare” era un po’ l’obiettivo. Insieme ci riusciamo meglio. Grazie del commento ❤️

  2. giampiero obiso dice: Rispondi

    Ho avuto finalmente il tempo di (ri)leggermi bene il post di Monica. Ci ho trovato una serie di flashback, di letture illuminanti (anche troppo) ma equivocate (non era Rifkin il professore intervistato, ma il suo, come dire, router italiano), un ricordo di un precariato giornalistico tecnologicamente avanzato e con le pezze alle terga che è pari pari l’esperienza di una cosa brillante e, appunto, brillata, che si chiamava Sicilia on Line (1995/96, giusto un campionato di calcio siamo durati, ma la BBC si collegava con noi per avere in diretta i risultati delle elezioni regionali in Sicilia, e i quotidiani di Palermo a rodersi), lunghi anni di bei lavori gratuiti e pessimi lavoretti sottopagati, in cui l’unica sicurezza era quella che a fine mese i buchi sarebbero aumentati e i progetti di vita erano un accessorio che non ci si poteva permettere, e tanto altro ancora. Ma la vera questione è il “non facciamoci fregare” da un sistema cromosoma xy, sia pure occasionalmente camminato da maschi moderatamente – di più è difficile – consapevoli dei loro dubbi. Timeo Danaos et dona ferentes mi pare saggio, dico alla mia amica. E sì, insieme ci si riesce meglio. Che il “ci si” sia volutamente impersonale è inevitabile conseguenza della suddetta dubbiosità. Da bianco che spesso balbetta cose per i neri capisco bene quanto poco credibile sia balbettare da uomo per le donne. Giusto così. e al prossimo post.

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