Aveva ragione Quasimodo. Il poeta, intendo, Salvatore. Non il campanaro.
Non scrivo da mesi, perché quando più o meno era ora di scrivere un nuovo pezzo per il blog, è iniziata la guerra in Ucraina. E qualunque altro argomento, tra quelli di cui sono in grado di scrivere, ha perso di senso. Forse è questo che succede quando una cosa insensata come una guerra piomba nelle esistenze. Tutto sembra perdere senso. Dunque sì, come potevamo noi cantare.
Svanisce il senso delle cose
Perdono di senso le case bombardate. Perdono di senso gli oggetti, le carte da parati che guardano al cielo, senza più soffitti a celare scelte cromatiche così private, così piene di significato, per chi viveva quelle stanze.
Perdono di senso gli oggetti, la lavatrice ancora con i panni bagnati dentro (ammuffiranno? Certo. E allora?) appoggia su un residuo di pavimento; accanto a lei il baratro la rende irraggiungibile, le tubature divelte la rendono inutile.
Perdono di senso le cose amate, la tazza in cui qualcuno certamente preferiva prendere il tè, il gioco per il quale forse c’è stata qualche piccola lite tra bambini, lo specchio che prendeva luce in modo perfetto per rasarsi la mattina.
Il senso è nelle persone
Tutto quel senso perso si riversa sui sopravvissuti.
Le persone che ricostruiscono relazioni ed abitudini nei seminterrati, nei sottoscala, nei passaggi sotterranei delle metropolitane, in qualunque luogo sembri promettere un po’ di protezione, loro invece prendono senso. Le loro vite, le loro storie, i loro pensieri. A qualsiasi età, diventano centri di senso. Che siano neonati inconsapevoli o anziani disperati, adolescenti devastati o donne – anche ora! – indaffarate, diventano bandoli di matasse, diventano il punto da cui partire per capire qualcosa.
Per questo sono soggiogata dalla bravura di Francesca Mannocchi, giornalista di guerra che si muove tra le storie e le immagini come se fossero pezzi di Lego. Non è vero che si possono incastrare in un modo solo, devi scegliere, ogni volta. Se vuoi che il risultato sia un oggetto stabile, solido, comprensibile, allora devi stare molto attenta a come incastri ogni pezzo con gli altri, perché forse in quel caso sì, c’è un solo modo. Ogni parola sua con quelle degli intervistati, ogni gesto suo con quelli che il suo operatore inquadrerà, ogni silenzio con le lacrime di chi non riesce a parlare.
In questi oltre due mesi di guerra ho seguito decine di servizi, tg, speciali. Pendo dalle labbra di Lucio Caracciolo le cui analisi sono lezioni di geografia, storia, politica e leggo Limes con infinito rispetto. Seguo l’andamento dei prezzi dell’import export e le dichiarazioni di tutti i centri studi e di tutte le organizzazioni di categoria. Attendo di sapere gli esiti dei negoziati con l’ansia con cui, da liceale, attendevo la redistribuzione dei compiti di matematica corretti (ma lì, poi, spesso andava bene).
Ma tutto questo non mi aiuta a capire cosa è la guerra. Mi fa capire le ragioni e i torti di chi l’ha iniziata, di chi la supporta e di chi la contrasta, ma non mi fa capire che cos’è.
Cosa portare, cosa lasciare
Che cos’è riesco a capirlo, e solo per brevissimi laceranti istanti, quando mi chiedo da quanto tempo quelle signore anziane non fanno una doccia, quando provo a immaginare che odore ci sia in uno scantinato che confina con un cumulo di rovine sotto le quali imputridiscono cadaveri da settimane. Quando mi domando cosa porterei via con me, se dovessi abbandonare la mia casa.
In questa nostra vita piena di oggetti, quale oggetto passerebbe la selezione? Cosa portare, oltre al cibo, in uno scantinato nel quale non sai quanto dovrai restare? Una sdraio, un materasso, un maglione? Un coltello? Lo spazzolino da denti? Salviettine umide? Un contenitore che possa servire da piatto, tazza, bicchiere? Carta igienica? Tutto perderebbe di senso. Forse un libro? Se la mia casa rischiasse di scomparire in una voragine di macerie, quale libro, tra le migliaia che la popolano, vorrei salvare? Un libro che non potrei più ricomprare, forse, quindi uno dei pochi libri antichi in mio possesso. O forse vorrei un libro nuovo, uno di quelli acquistati e non ancora letti, perché almeno nello scantinato avrei qualcosa da fare. Certo, avrei il telefono, in cui ci sono decine di libri in formato elettronico. Ma se poi non posso ricaricare la batteria, anche il telefono perde di senso, non si può leggere nemmeno là.
Così provo a immaginare cosa si potrebbe fare in quello scantinato e penso che l’unica cosa sensata sarebbe provare a conoscere gli altri. Sapere chi sono i depositari del senso, capire cosa possono davvero fare, per provare a salvarsi, e a continuare le loro storie nel futuro, mentre i negoziati, i servizi e gli speciali continuerebbero a dire cose parziali e dalle case sventrate evaporerebbero tutte le storie passate: di quel che sono stati, avvolti dalle carte da parati, e che non saranno più.
Scrivere d’altro
La sensazione è che, se di mestiere scrivi, non dovresti scrivere di nient’altro. La certezza, tuttavia, è che le tue parole sulla guerra, non servirebbero a nessuno, non farebbero chiarezza né informazione, perché della guerra vedi solo quanto senso fa sparire.
Forse, se di mestiere scrivi, allora ti tocca ricominciare a scrivere. Cantare magari no, perché quel piede straniero sopra il cuore il fiato te lo toglie, e i morti abbandonati nelle piazze, anche se solo in tv, li hai visti. Ma tornare a scrivere, di quel che sai e puoi, forse questo è quel che devi fare.
Alla prossima, dunque.
😔🧡
🙂
Grazie Cinzia. Ottime riflessioni che a gran parte di tutti noi sfuggono.
Grazie a te.
Grazie Cinzia per aver espresso con profondità e chiarezza pensieri che in questi mesi stanno opprimendo anche noi “che siamo sicuri nelle nostre tiepide case”.
Per favore riprendi a scrivere, distoglici un po’ dall’ ansia da cui ci sentiamo avvolti.
Grazie, Claudia. Quasimodo e Levi, in effetti, sembrano pezzi dello stesso puzzle. Il primo ci dice: durante l’orrore non c’è spazio per altro. Ma l’altro ci ricorda che l’orrore va raccontato e ricordato e interrogato sempre.
♡
Non riesco a scrivere altro.