Proudly ghost

Il primo libro della mia vita, quello che ho letto da sola, dall’inizio alla fine, proprio come facevano i grandi, si intitolava “Il Leprotto Avventuriero”. Me lo regalò mia madre, credo nel 1969. Il libro è del 1967, io del 1964.

Non me ne sono più separata, ha sempre avuto un posto d’onore nelle librerie delle mie case e negli scatoloni dei miei traslochi. Se dovessi scegliere un oggetto con cui vorrei essere sepolta, non penserei ai libri che ho scritto, ma a quel primo libro letto, in fiera autonomia.

Leggere sempre, leggere tutto

Da allora ho letto qualsiasi cosa, da Rodari a Zagor, da Topolino a Bach (quello del gabbiano). In un paio di estati adolescenziali ho divorato i volumi della collana Harmony che stavano – numerosissimi – a casa delle mie cugine. Ne leggevo due o tre al giorno, erano sostanzialmente tutti spalmati sullo stesso format, dopo due ore non mi ricordavo più nulla né della storia né dei protagonisti, ma pur riconoscendo la povertà delle operazioni letterarie non riuscivo a non emozionarmi: lode e gloria ai traduttori.

C’è stata la lunga stagione dei giallisti americani, da Connelly in giù, letti in spiaggia, di giorno, perché la sera mi spaventavano troppo, stagione che forse non è ancora finita; quella dei giallisti italiani iniziata con i romanzi di Santo Piazzese e proseguita fino ad arrivare a scoprire Camilleri.

Sono entrata nel mondo magico dei latinoamericani, da Garcia Marquez a Gioconda Belli, con tutto quello che ci può stare in mezzo.

C’è stata la fase dei romanzieri contemporanei indiani, che scrivono cose deliziose e hanno un senso dell’umorismo inaspettato; e poi i nordeuropei con le loro stranezze e il loro mondo disegnato per bene.

Sono solo pochi esempi, ma il senso è che leggere va bene, va sempre bene. Qualsiasi cosa si legga. Perché la lettura è l’inganno più dolce. Si crede di leggere una storia, si pensa di appassionarsi ad una vicenda. Invece quel che succede davvero è che il nostro cervello immagazzina vocaboli, soluzioni sintattiche, sfumature lessicali, capacità descrittive, paesaggi e atmosfere che ci serviranno sempre e per sempre. Sia che decidiamo a nostra volta di scrivere, sia che diventiamo portieri di notte di un hotel di periferia, quegli strumenti ci serviranno a dire di noi e a capire degli altri.

It’s not Harry, honey, it’s Moehringer

Riesco ad elencare poche cose che mi possano interessare meno di quel che ha da dire il principe Harry. La monarchia inglese mi interessa parecchio e per molte ragioni che riguardano il passato e il presente, ma venire a conoscenza dei crucci privati di chicchessia – a meno che non siano quelli dei miei amici, che decidono di raccontarmeli “di persona personalmente” – mi mette in imbarazzo, mi fa sentire una che si impiccia. Certo, l’invito ad impicciarsi è qui plateale ed espresso in parecchie lingue, ma il disagio resterebbe.

Tuttavia, sapere che quel libro ha venduto 400 mila copie nel primo giorno di uscita, e continua a vendere a spron battuto, mi rallegra. Un libro che, con scelta editoriale ben precisa, non è uscito prima di Natale, quando tutti sono ben disposti a spendere per regalare libri, sta facendo il botto di vendite presumibilmente ad opera di chi lo acquista non per regalarlo ma per leggerlo.

Ebbene, quello non è un libro qualsiasi. Quello è un libro scritto da J.R. Moehringer, il cosiddetto “ghost writer” di Harry. Che è come se io decidessi di tagliare e cucire un paio di pantaloni e mi affidassi a un “ghost taylor” che si chiama Giorgio Armani.

Moehringer è un giornalista straordinario, premio Pulizer nel 2000 (quando aveva 36 anni), autore di un romanzo incantevole che si intitola Il Bar delle Belle Speranze dal quale (con il suo contributo alla sceneggiatura) è stato tratto l’altrettanto incantevole film The Tender Bar. Moehringer si è più volte dedicato alle biografie (il tennista Agassi; il fondatore della Nike; il campione di pugilato Bob Satterfield, finito a fare il barbone), e presumo che questa sia la ragione del suo ingaggio.

Saremo migliori

Non so se l’idea di chiedere a Moehringer di scrivere Spare è stata di Harry (che peraltro così diventa “spare” anche come scrittore, povera anima) : se lo fosse, e se fossimo in un mondo perfetto, tanto dovrebbe bastare per riammettere il piccolo a corte, reincastrarlo nella linea di successione al trono e assegnargli il premio che si assegnerebbe (sempre nel mondo perfetto) a chi induce alla lettura il maggior numero di persone che altrimenti non avrebbero aperto un libro nemmeno per ripararsi dalla pioggia.

Non siamo in un mondo perfetto, ma in qualche modo Spare ha aggiunto un po’ di perfezione a questo mondo: innanzitutto portando allo scoperto la figura del ghost writer, così che finalmente anche io oggi posso dichiarare con orgoglio di aver fatto e di fare – anche – questo mestiere; e poi, sicuramente, portando tante persone, e spero tanti ragazzi, a scoprire quella felicità: leggere un libro dalla cima al fondo, in fiera autonomia.

Persone che si lasceranno ingannare, credendo di dedicare il proprio cervello alle insipide lagne di Harry, e invece, per 540 pagine, lo affideranno alle insuperabili cure di Moehringer.

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