CARA CINZIA – Come saranno, dopo, i biscotti?

Ciao Cinzia!

Torno a scriverti, anche se “toccherebbe a te”. Ma il flusso dei pensieri si è fatto più consistente e ho voglia di condividerlo.

Mi raccontava un’amica che il suo compagno le ha regalato un panettino di lievito di birra fresco con lo stesso sussiego riservato, in altri tempi, a un pacchetto di Tiffany. Ridevamo insieme di quanto si fosse sentita più Nonna Papera che Audrey Hepburn, ma soprattutto di come anche lei, che di solito è in tutt’altre faccende affaccendata, da quando è scattata la quarantena impasti e inforni neanche fosse la cuoca di Maria Antonietta.

Anche a sfogliare i miei social, solitamente affollati di dotti ragionamenti politici, acute analisi economiche, proposte ambientali, pallone nei momenti di maggior relax, è tutto un traboccare di scodelle, esondare di timballi, uno scomposto food porn che travolge anche i più austeri e insospettabili salutisti.

Chissà che effetto fa a te, che sostieni da sempre le ragioni del cibo come struttura e termometro della qualità della nostra vita.

«Siamo solo cibo e cori dal balcone?

Rifletto da giorni come le code per acquistare il cibo scandiscano ormai la giornata della maggioranza dei nostri concittadini. Noi italiani, che la coda non l’abbiamo mai fatta per vezzo, ci sgraniamo ordinati con guanti e mascherine, ci inchiniamo al nostro stereotipo di patria del molto mangiare, un po’ per uscire di casa, un po’ per vero bisogno.

Un gesto fatto spesso, prima, di fretta e con fastidio, quello di fare la spesa, si è trasformato in una sorta di rituale sociale in cui ci si incontra e ci si conta, si capisce a occhio se ci siamo tutti oppure se qualcuno manca. Ci si conosce e ci si ritrova, pratica lunare nelle grandi città dove schivarsi era lo sport più praticato.

Penso all’assalto agli scaffali, quello delle prime conferenze stampa da panico, dove venivano risparmiate dal saccheggio solo le penne lisce e le minestre in busta. A quelle murate di carta igienica e carta cucina che con pudore spuntano dalle videoconferenze improvvisate in cucina, che non potrebbero essere consumate neanche in anni di disordini intestinali. Alle scatole e scatole di fagioli, ceci, insalate giardiniere, carne in gelatina, diventate sfondo di selfie per parenti e amici manco fossero i sandali di Positano durante una gita di primavera.

Gli studiosi dei comportamenti assicurano che nei momenti di pericolo ci si attacchi a ciò che davvero conta per noi: quindi noi italiani siamo solo pizza e serenate in balcone, o forse dietro questa corsa al mattarello c’è qualcosa che non capiamo fino in fondo? Forse un sociologo ci suggerirebbe che quando la produzione si ferma c’è spazio per la riproduzione e la creatività. Ecco che qui il miscelare, impastare, cucinare e condividere offrono l’opportunità unica di sedare la paura ancestrale della fame tenendo impegnate le mani e confortandoci con gli occhi, il naso e il palato.

Ha afferrato i biscotti ed è scoppiato a ridere

La lotta per il pane è un archetipo di tutte le forme di resistenza. Il 7 aprile del 44, quando i nazisti diminuivano la razione giornaliera di pane per i romani a 100 grammi durante l’occupazione, le donne del quartiere scoprirono che il forno Tesei all’Ostiense sfornava chili e chili di pagnotte bianche per le truppe tedesche. Lo assaltarono e lo svuotarono, sacchi e sacchi di pane e farina correvano di mano in mano. I nazisti, chiamati dai fiancheggiatori, rincorsero le donne su quello che noi indigeni chiamiamo il Ponte di ferro, ne abbrancarono dieci e le ammazzarono lasciandole tutto il giorno lì, tra pane e sangue. Ma poco dopo, il 4 giugno, Roma festeggiò l’arrivo degli alleati, e mia nonna raccontava che impastarono e cucinarono per una settimana intera per tutto il palazzo, i parenti e tutti quelli che suonavano alla porta.

Ci stancheremo di cucinare, prima che la quarantena sia finita? Ci lasceremo prendere dallo sconforto e divoreremo scatole aperte a caso a forchettate fredde davanti all’ennesima serie? O manterremo quella cura maniacale di sughi e consistenze, quei sapori riscoperti, magari mai provati prima? Lo faremo in una grassa tavolata di liberazione, o in una cena curata con quegli affetti dai quali siamo stati separati all’improvviso?

Un amico volontario mi ha raccontato gli occhi imbarazzati della giovane mamma di due bambini, che evitavano di guardarlo mentre le consegnava un pacco di viveri. Frutta fresca, pasta, pelati, qualche detersivo, lo zucchero. Lei e il marito lavoravano e si sono innamorati in un centro commerciale, chiuso con la serrata. Il titolare dei loro negozi è sparito. Con l’affitto se ne stanno andando gli ultimi risparmi. Hanno cercato su internet e hanno trovato il telefono di un’associazione, non sapevano neanche cosa chiedere. Sull’ingresso di casa il più grandino dei figli ha afferrato dal cartone i biscotti, ha abbracciato il fratello e, tenendo stretti in mezzo a loro i biscotti, è scoppiato a ridere. Io da due giorni a colazione fisso i biscotti e li rimetto via.

Chissà che sapore avranno i biscotti, dopo.

Monica

Una risposta a “CARA CINZIA – Come saranno, dopo, i biscotti?”

  1. giampiero obiso dice: Rispondi

    Lo confesso. Ho ceduto anch’io. Mi autodenuncio. Mio figlio mi guarda strano quando torno dalla spesa. ormai rarefatta a un’incursione a decade in un centro commerciale che, ora che è vuoto, ha assunto un certo fascino da b-movie postnucleare. E sono appena accasciato al pc dopo aver finito di sistemare riserve alimentari che potrebbero sfamarci per un paio di mesi senza bisogno di razionare nulla. E se mi facessero il guanto di paraffina troverebbero ancora le tracce di un trito di canditi finito in una pastiera insospettabilmente riuscita al primo tentativo, e di aromi e spezie usate negli ultimi giorni per almeno una decina di esperimenti culinari ed altrettante conferme di quanto il mio tiramisu sia di livello superiore. Mi sono rassegnato ad uscire da questa crisi come un cuoco migliore. Quanto ad essere uomini migliori, è tutta da vedere. E questo dispendio di energie culinarie si accompagna al rimorso vigliacco di non essere uno di quelli che i biscotti, invece che cucinarseli, li portano alle famiglie che racconti tu Monica. Ma è un’altra questione. Ora che ho cantato, adesso che il poliziotto buono può tornare alle sue faccende, che non serve più, il questurino che immagino di avere davanti può tornare a interrogarmi con la sua spocchia, che non gli pare vero, va da sé, avere un buonista tra le mani. E lo sappiamo tutti e due che qui c’è dolo specifico. Perché il carrello pieno non è una reazione compulsiva da macchinafinedimondo ormai attivata, ma una scelta deliberata. Mezzo, movente ed opportunità. Io so cosa sto facendo. Ho un setaccio di ultima generazione carico, e non ho paura di usarlo. Mentre negli USA si faceva la fila per un AK47, io riempivo l’arsenale di tostapane e frullatori a immersione. Ed ogni giorno scateno questa potenza di fuoco (il calambour fin troppo ovvio qui lo eviterei). Ma so che il mio avvocato chiederà le attenuanti specifiche, perché tutto questo è disciplina, è tenere la cucina a specchio anche in mezzo a un arrosto in lavorazione, è svuotare la lavastoviglie prima che abbia detto bà, è fare sentire ai miei figli che abbiamo una situazione sotto controllo, che possiamo permetterci di pensare al cibo perchè stiamo governando bene la barca, anche in questo mare. E’ un modo per riunirci attorno a un pranzo o a una cena e sentire per un momento che non c’è da preoccuparsi, e che ci possiamo permettere la spensieratezza di un pasto alla carta tra una lezione universitaria on line, uno smart working, e una promozione musicale in corso nel momento peggiore possibile per un giovane musicista. E’ un modo per mandare alla mia compagna lontana la foto di un riso pilaf con mandorle e curry e farla sentire attorno alla nostra tavola, almeno un po’. E quando ne saremo fuori, i bastoncini di pesce saranno manna dal cielo. Adelante siempre.

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