Cultura e caporalato: libri e cibo si assomigliano

Si parte piano….

La pubblicazione di un libro è un lungo viaggio su un treno che parte lento, lentissimo.

L’idea si forma grazie ad una gestazione che ha bisogno di tempo dedicato, ma soprattutto di tantissimo tempo non dedicato. Deve restare lì, in qualche sottoscala del cervello, fare un po’ quel che le pare, nutrirsi degli eventi più improbabili, di cose che apparentemente non la riguardano: lezioni, convegni, articoli che parlano d’altro, film, aperitivi, sogni. E lei lì, come nella migliore tradizione delle specie opportuniste, a farsi bastare lo spazio che c’è, il nutrimento che sembrava andasse perso. 

Viene il momento in cui è abbastanza delineata da manifestarsi. La guardi e le chiedi: potresti diventare un libro? Avresti un senso? Saresti utile a qualcuno? Lei scodinzola felice e spalanca gli occhioni e dice sì sì fidati vieni con me vedrai dove ti porto, dài andiamo. Ma ancora non ti fidi, la lasci lì e ti giri da un’altra parte. Ci sono sempre altre parti verso cui girarsi, specialmente se siamo nella primavera-estate del 2020, e questa storia ti ronza in testa da un annetto e intanto non si capisce sto Covid come va a finire. Hai aperto persino un blog, nel frattempo, e poi urgenze familiari e poi quelle economiche e insomma, idea mia, stai brava che non ho proprio tempo da perdere con te ora.

L’estate finisce e siamo di nuovo chiusi, di nuovo didattica a distanza e c’è tutto questo tempo da usare, già te lo vedi l’anno che arriva e che si srotola e ti dici no, il tempo bisogna usarlo, se l’universo ci obbliga a fermarci allora bisogna fare qualcosa di buono con questa sosta. Ti dai ancora un mese di tempo e a ottobre 2020 scrivi al tuo editore: ho un’idea, ne parliamo?

Poi si accelera un po’…

Il treno accelera un poco quando l’editore ti risponde: parliamone.

Parlare con un editore di un libro che sta dentro la tua testa, sulla tua scrivania (ma non in forma leggibile) sul tuo comodino (blocchi e matite sempre a disposizione) significa produrre almeno una paginetta di presentazione, sapendo perfettamente che non è quella roba lì, che poi verrà fuori.

Ma un editore ha bisogno di capire l’idea e soprattutto di programmare tutte le fermate del treno.

Mentre tu cerchi di dire le cose nel modo più vago e più preciso allo stesso tempo l’editore dice: ok, prenotiamo la carta. Siamo a novembre del 2020 e loro prenotano la carta. Non solo: mi dicono le date del “giro vendite” ovvero del momento in cui i commerciali andranno in giro per le librerie che dovranno prenotare il tuo libro che uscirà mesi dopo e di cui dovranno parlare. Loro. Non sei in grado di farlo tu, poveri commerciali, come potranno mai? Non è finita: la calendarizzazione dei lavori delle stamperie si fa con circa un anno di anticipo, e quindi si parte con il programma a ritroso: in libreria il 15 settembre, quindi in magazzino il 3, in tipografia a fine luglio, per cui vogliamo il file di word per fine giugno, per consentire la revisione delle bozze, l’impaginazione, l’ulteriore revisione dell’impaginato.

Torni a casa dopo la riunione, non senza aver concordato anche il tuo compenso, e vorresti chiuderti dentro e non uscire più. Tutto quel che hai scritto fino a quel momento, senza la pressione di un’agenda fatta, tutto quel che vuoi ancora leggere, tutto quel che vuoi riscrivere e tutto quello che devi ancora scrivere devono stare in quegli otto mesi scarsi. Otto mesi. Senti uno strappo e sai che il treno ha preso un’andatura più o meno normale. La velocità impennerà nelle ultime quattro settimane, il mese di giugno lo passi praticamente incollata alla tastiera del tuo computer, tranne quando sei alle prese con le bozze stampate in word, che producono refusi in maniera del tutto autonoma.

28 giugno: consegni.

Il treno ormai è alla sua massima velocità e, soprattutto, quella velocità non la controlli più tu.

Intanto ci sono gli indici, la bibliografa e i ringraziamenti da scrivere e mandare, la prefazione da aspettare. Pare che luglio 2021 sia stato il mese più caldo della storia del pianeta, ma se non sei praticamente uscita mai di casa puoi dire di non essertene accorta.

L’intervallo del Don Giovanni

A fine luglio ti torna indietro, per l’ultima volta l’impaginato. Hai già letto e riletto tutto non sai nemmeno tu quante volte. Ma rileggi. Tutto. Anche il colophon. Anche nei momenti “liberi”.

È la sera del primo di agosto, sei a teatro per un Don Giovanni un po’ improbabile. Nell’intervallo gli amici fumatori escono e tu rimani sulla poltroncina di velluto, e riaccendi il cellulare sul quale – lo sai bene- c’è il pdf del tuo libro. Lo apri. Ricominci a leggere, questa volta anche i dettagli delle prime pagine. Ed ecco che lo vedi:

Finito di stampare nel luglio 2021 da Grafica Veneta, Trebaseleghe (Pd).

Una raffica di caldane precede i pensieri: pochi giorni prima quella stamperia, la più grossa d’Italia, è salita agli onori delle cronache per una storia di lavori in subappalto e caporalato. Non è vero che ormai fanno tutto le macchine. Ci sono cose, nei libri, che bisogna ancora fare a mano: per esempio mettere le fascette promozionali, o i segnalibri promozionali, o le cartoline promozionali. Quel tipo di lavoro comporta il fatto di prendere in mano ogni copia di un testo. Ci sono aziende che se ne occupano e i lavoratori di queste cooperative vanno nelle tipografie, dove stanno le copie dei libri appena stampati e, a mano, fanno quel che va fatto, copia dopo copia.

Il mio libro non ha né fascette né segnalibri né cartoline; in compenso ha pagine e pagine sull’importanza del lavoro, sulla dignità della persona, su come una malsana idea di società che vede il profitto al comando su qualunque valore e ideale, abbia creato lavori alienanti che non possono in nessun modo concorrere alla costruzione né degli individui né delle comunità.

Scrivi una mail al tuo editore, speri ancora che non sia vero.

Ma lui ti chiama l’indomani alle 8 per dirti che sì, è vero: «Abbiamo ancora due commesse in dirittura di arrivo, il tuo libro e un altro, non possiamo bloccare tutto adesso, significherebbe buttar via montagne di carta, e comunque non riusciremmo a riprogrammare adesso con una nuova stamperia, usciremmo fra mesi e mesi».

Una storia di caporalato nel mondo dell’editoria esce quattro giorni prima che il tuo libro sulle storture del capitalismo entri in tipografia, con il treno ormai lanciato. Niente da fare, si stampa.

I paradossi dell’editoria indipendente

Stampare un libro che si intitola Il Profitto e la Cura in una stamperia i cui titolari sono ai domiciliari con capi d’accusa che vanno dall’estorsione alle lesioni al sequestro di persona allo sfruttamento di lavoratori stranieri, fa venir fuori tutti i paradossi che pesano oggi sull’editoria indipendente.

In realtà pesano anche sul resto dell’editoria, ma le grandi case editrici hanno qualche escamotage formale in più. Possono affidare le proprie stampe ad altre tipografie che poi eventualmente le riaffideranno ad altre ancora, ma sul colophon dei loro libri comparirà solo il primo anello della catena e la faccia sarà salva. I piccoli editori invece devono fare i conti con bilanci delicati. La stampa di un libro porta via il 20% del bilancio di quel titolo, in prima (molto spesso l’unica) tiratura; il 60% va alla distribuzione (che include anche i margini, non ampi, delle librerie); resta un 20% nel quale va contemplato il compenso dell’autore, eventuali diritti per le fotografie, il lavoro dei grafici e, infine, il margine dell’editore. Certo, se poi vendi centinaia di migliaia di copie il problema non si pone. Ma non succede quasi mai. Le centinaia di migliaia di copie sono un lusso che i piccoli editori raramente conoscono. Ci sono stati alcuni casi, nella storia, e ce li ricordiamo ancora tutti.

E allora come si fa?

Bisognerebbe che l’importanza dell’esistenza della piccola editoria indipendente fosse riconosciuta e che ci si comportasse di conseguenza. Maggiani è giustamente addolorato per quanto ha scoperto, insieme a tutti noi, ma forse oltre ad arrabbiarsi, si può fare.

Cibo o libri, è uguale

Quello che tanti di noi denunciano da anni a proposito del cibo, invitando i consumatori a non fidarsi di prodotti sottocosto perché nascondono ingiustizie e soprusi, oggi sappiamo che vale anche per i libri. Questo in qualche modo è più subdolo, perché i libri possono veicolare idee nobili e hanno per lo più prezzi imposti. Come può un lettore “tracciare” la storia dell’oggetto-libro che sta per acquistare? D’altronde il punto non è su chi buttare la croce, se questa o quella stamperia, questa o quella casa editrice. Il punto è permettere all’editoria indipendente di respirare.

Gli e-book possono forse risolvere una parte del problema, ma quante persone sarebbero escluse dalla lettura se si smettesse di stampare? Quanto accesso in meno alle idee si avrebbe? Un dettaglio per tutti: gli e-book non si possono prestare, in molti casi non si possono nemmeno regalare. Non si possono lasciare su una panchina sperando che qualcuno li legga e si appassioni. Non si possono donare alle scuole o alle biblioteche di paese. E comunque sugli e-book è difficile studiare. Io che pure sono una più che discreta lettrice, leggo su supporto elettronico solo per diletto, non riesco a lavorare se non ho una materia da manipolare, sottolineare, commentare ai margini; se non posso tenere più volumi aperti contemporaneamente colonizzando lo spazio di casa mentre le idee colonizzano il mio cervello e il mio tempo.

La biodiversità dell’editoria

Quindi la carta ci vuole. E i piccoli editori anche, perché se no i piccoli autori non potranno pubblicare un bel nulla. Il paragone con il cibo torna ancora utile. Servono i piccoli produttori perché le grandi industrie – al di là di ogni considerazione sulla qualità – possono mettere sul mercato solo pochi alimenti, poche varietà, più o meno simili in tutto il pianeta. Le grandi aziende globali possono offrire solo prodotti globalizzati e globalizzanti. Invece il nostro pianeta ha bisogno di biodiversità. Ne ha bisogno per sopravvivere, non per parlarne nei salotti.

Lo stesso vale per le idee, i pensieri, la cultura. Servono i libri da poche migliaia di copie vendute perché solo quelli possono alimentare i piccoli rivoli di pensiero senza i quali le società si appiattiscono sul pensiero unico o qualche volta sul non-pensiero unico. Inoltre, i grandi autori – quelli delle centinaia di migliaia di copie – sono pochi e non pubblicano con i piccoli editori.

Restituire un po’ di fortuna

Ma forse sì, invece.

Qualcuno, ogni tanto può pensare di restituire una parte della sua fortuna. Stephen King ha pubblicato un libro con una microscopica casa editrice di Scampia, quartiere di Napoli. È un saggio, si intitola Guns, contro le armi. Certo i saggi non vendono centinaia di migliaia di copie, ma grazie a King quell’editore con annessa libreria ha potuto raccontare la sua storia al mondo ed è stato riconosciuto come un pezzo importante di una comunità fragile, in cui ogni tessera serve per tenere insieme le altre.

Restituire un po’ di fortuna, ammettendo che la propria fortuna non è mai solo merito proprio. Lo facciano i grandi editori, rinunciando all’esclusiva su qualche grande autore. Lo facciano i grandi autori, scegliendo un piccolo editore a cui affidare un po’ dei loro pensieri e ai quali consentire di beneficiare di un po’ della loro fama.

Fare rete tra piccoli per risalire la china

Intanto i piccoli e indipendenti provino a fare rete, si coalizzino, mettano su dei sistemi collettivi sia per controllare le filiere sia  per poter spuntare prezzi migliori nelle piccole stamperie, quelle che lavorano bene e che non rischiano di affidarsi a filibustieri, ma – anche per questo – non sono concorrenziali.

E proviamoci anche noi lettori, anche se fa rabbia pensare che alla fine nemmeno comprare un libro, può essere un gesto fatto a cuor leggero. Rassegniamoci: finché la cura non prevarrà sul profitto, finché il profitto guiderà le danze, bisognerà ricordarsi che c’è un tragitto verso il basso che ogni volta viene percorso, che siano libri, cibo, abiti o ponti: se si rinuncia alla cura in nome del profitto, la prima ad essere sacrificata sarà la qualità: delle materie prime, dei processi, dell’organizzazione; ma poi non basterà, perché oltre un certo livello di qualità non si potrà scendere. Quindi toccherà alle relazioni: con l’ambiente, con le persone, con il futuro. Ma anche qui si troverà un limite, oltre il quale il profitto non vorrà andare. A quel punto non resterà nient’altro da comprimere se non i diritti: quelli dei lavoratori, prima, quelli delle persone quando si toccherà il fondo. Una paga bassa è un diritto del lavoro non rispettato, ma finire all’ospedale perché il capo ti ha picchiato, legato e scaricato a bordo strada è un diritto umano calpestato.

Quella scala a scendere è stata percorsa tutta, ma sappiamo per esperienza che quelle scale non hanno un ultimo gradino, si può sempre scendere un po’ più in basso. Iniziare invece a risalirla è una fatica micidiale, ma se non ci proviamo – adesso, tutti- allora cosa stampiamo, pubblichiamo, scriviamo, leggiamo a fare?

 

 

 

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