La marcia dei 40mila, quella buona

Un nuovo fallimento del combinato disposto tra capitalismo e mancanza di cultura politica e sociale è stato certificato dalla sentenza che stabilisce che la GKN, banalmente, non poteva licenziare i suoi operai.

La classe dirigente e padronale di questo paese non ha ormai la più pallida idea di quale sia il proprio ruolo, quali siano i suoi doveri, quali siano i suoi compiti sociali – peraltro sanciti dalla costituzione, oggetto estraneo, evidentemente, al corredo dell’amministratore delegato contemporaneo, per non parlare del titolare.

Imprenditori seri ne abbiamo?

Creare economie sane ed occupazione, offrire reddito e una realizzazione a famiglie intere, ricevere in cambio tempo, energie, passione, dedizione e competenza, oltre che profitto e prestigio sociale, prendendosi le responsabilità connesse al proprio ruolo, senza scappare appena possibile dove c’è qualche soldo da risparmiare, senza frignare in qualche ministero ogni volta che il profitto si abbassa un po’, senza nemmeno immaginare che nella propria azienda possa succedere qualcosa di illecito di cui loro non sanno nulla (cfr. caso Grafiche Venete): questo dovrebbe essere l’ABC di chiunque intraprenda un’attività che prevede l’assunzione di lavoratori.

Invece ci ritroviamo con una classe dirigente e padronale che, per la stragrande maggioranza, non ha nessuna passione per il proprio lavoro, non lo ritiene volano di un comune destino, non ha idea di quale sia stata la storia del lavoro in questo paese e in questo continente.

Le piazze, quelle buone

Per questo non resta che ricominciare dalle piazze, quelle belle e serie e appassionate e piene di sapienza come quella di sabato scorso a Firenze, in cui sono scesi non solo gli operai il cui posto di lavoro è in pericolo, ma anche tutte le persone che pensano che bisogna fermarsi, guardare questa classe dirigente negli occhi e dire no. No a questo degrado dell’idea di lavoro, no a questa cancellazione delle relazioni, no alle bugie, no alla tracotanza di chi manda mail alle 6 del mattino senza nessuna interlocuzione precedente, no a chi pensa che i movimenti operai siano tramontati, no a chi fa finta di non sapere, no a chi prova ad ignorare l’esistenza dei sindacati, sperando che nessuno se ne accorga, no a quelli che pensano di essere gli unici furbi in un mondo di fessi.

Tutti questi no erano ben piantati in mezzo a quei quarantamila corpi un po’ accaldati che sfilavano per i viali di Firenze, raccontando un mondo pieno di sì: tutti i sì che bisogna dire per capire che succede, per decidere che ti riguarda, che tu sia un operaio o no, che il tuo lavoro sia in pericolo o no, per fare in modo che a quelle quarantamila presenze si uniscano quelle consentite dall’Internet, dai video in diretta, dai post sui social, dalle foto mandate via Whatsapp per dire guarda quanti siamo e farsi dire “ci sono anche io” da chi è lontanissimo ma solo con il corpo.

Ripartiamo

«La marcia dei 40 mila, quella buona» è stato detto dal palco di Firenze. Chi si sta chiedendo cosa significa corra su Wikipedia e legga di quell’altra marcia. Sono passati, quasi esattamente, 41 anni di incuria per ogni idea di lavoro degno, e quei pochi imprenditori che invece hanno costruito sistemi virtuosi sono stati ignorati, non hanno fatto scuola e restano oasi felici ma sempre lontanissime. Ripartiamo da Firenze. Ripartiamo dalle donne e dagli uomini scesi in piazza a Firenze, dalle donne e dagli uomini sul web, ripartiamo dai sindacati che ancora sanno fare il loro mestiere, dai pochi imprenditori degni di questo nome.

Per non aver più bisogno di un giudice che ci dia ragione.

 

 

 

Photo credit: Andrea Sawyerr

4 risposte a “La marcia dei 40mila, quella buona”

  1. Centodue anni fa la Corte federale USA diede torto a Henry Ford e ragione ai soci fratelli Dodge, in base al “principio degli azionisti”, secondo il quale le aziende non devono creare nuovi posti di lavoro ma generare dividenti per i soci d’impresa. Oggi che i soci d’impresa sono sempre più fondi d’investimento anonimi, globali e immateriali-impersonali, questo principio è ancor più attivo ed evidente. Se molte imprese così combinate potessero fare totalmente a meno dei lavoratori e delle fabbriche, lo farebbero senza problemi.
    Nella prima marcia dei quarantamila (quando ne parliamo fra amici poi segue un aggettivo dispregiativo in dialetto piemontese ormai desueto che inizia per pi e finisce per ciu), e alla quale ho assistito, impotente, c’erano tutte le premesse, il seme, di ciò che è accaduto alla fabbrica di automobili di Torino, compresi i licenziamenti via sms alla GKN di oggi.
    Ma i risultati della globalizzazione si scontrano ancor più con le devastazioni climatiche indotte e con la necessità impellente di un totale ripensamento delle attività produttive e del lavoro. Smettere di essere asserviti alla logica del consumo che non consuma ma devasta, smettere di parlare di crescita ma mirare all’equilibrio, richiede un ripensamento ancora più profondo del lavoro e del prodotto del lavoro. Forse davvero non abbiamo bisogno della GKN, ma non perché non dà abbastanza profitto agli investitori ma perché ciò che produce non è compatibile con la Terra. Ma questo è un altro discorso.

    1. Grazie Rodolfo, un commento prezioso, anche per quella chiusura dolorosissima. Di questi argomenti (anche) parlo nel mio ultimo libro, appena uscito, che si chiama “Il profitto e la cura” (ed Slow Food). Se ti andrà di leggerlo mi farà piacere sapere cosa ne pensi. Ciao.

  2. Avevo, lì fremente, “Il profitto e la cura”, in attesa di essere letto. Nel frattempo stavo rileggendo per la terza volta “Tracciare la rotta” di Bruno Latour, che fonda la sua analisi sul fatto che non si possono comprendere le politiche degli ultimi cinquant’anni se non si attribuisce un posto centrale alla questione del mutamento climatico e della sua costante e strenua negazione. Un testo ricco di notevoli riflessioni esclusive.
    Sono nato tre giorni dopo Carlo Petrini. Mi sono occupato per mezzo secolo di design. Conosco abbastanza bene i meccanismi generativi degli artefatti inerti –le merci–, meno bene gli artefatti biologici derivanti da allevamenti e colture che, uniti ai processi di trasformazione e distribuzione, ben poco hanno a che fare con le forme animali e vegetali da cui derivano. Mi aspettavo –leggendo la terza di copertina– un saggio orientato sopratutto alla produzione alimentare, argomento, quello degli artefatti biologici, che molto mi incuriosisce. Ho trovato, piacevole sorpresa, molto più di questo. Un testo innanzitutto ben scritto, chiaro, onesto, esauriente e che mi trova totalmente concorde in ogni sua affermazione. Hai fatto davvero bene a scriverlo questo libro, anche se, immagino, ti è costato un impegno decisamente gravoso. Brava.
    Non so come, forse attratto dal titolo per ragioni che non ho spazio per spiegare in questa sede, a quattordici anni ho acquistato e letto “Primavera silenziosa” nella sua prima edizione Feltrinelli. Ciò vuol dire che per tutta la vita il tema della conflittualità fra capitale e ambiente è stato al centro delle mie speculazioni. Gran parte dei testi che hai citato (trascrivendo gli originali, e non come spesso accade, modificando leggermente le frasi e facendo divenire pensiero dell’autore testi altrui) li ho letti e meditati. La lettura di “Il profitto e la cura” è stato quindi per me anche un viaggio a ritroso nel tempo. Mi auguro di cuore che il tuo libro entri a far parte del sapere di molti e che sia materia di studio, libro di testo per tantissimi studenti. Da esso avranno tanto di buono da apprendere.
    L’economia unica del mondo prevede che il denaro accumulato oltre i bisogni immediati venga non messo a disposizione di chi non ha, ma sia investito e procuri altro reddito. Con la globalizzazione è accaduto in modo più esteso che si possa fare il denaro con il denaro, anche senza lavoro, anche senza mezzi di produzione. Addirittura senza denaro, o con forme ancora più fittizie (bitcoin…) di esso. Il capitale finanziario è enormemente maggiore del capitale materiale, ed entrambi non si perpetuano senza la crescita continua. Il loro strapotere è enorme, assoluto. Tutto il nostro essere dalla parte della ragione, il considerarci più vicini alla verità di quanto lo siano i negazionisti, non servirà a modificare la rotta.
    La mia impressione è di essere su un treno in corsa verso la destinazione sbagliata e che il nostro agitarsi corrisponda a spostarci verso i vagoni di coda al fine di ritardare l’arrivo. Spero però di sbagliarmi e di aver contribuito nel tempo in qualche modo a passare il testimone, seppure fallimentare, alla prossima generazione.
    È quello che tu hai fatto così bene con il tuo eccellente lavoro. La rilettura più calma de “Il profitto e la cura” spero possa smorzare il mio pessimismo di vecchio disilluso. Grazie di cuore.

  3. E’ la prima “recensione” del mio lavoro e sono lusingata da quel che ne scrivi. Spero avremo l’occasione di conoscerci in un prossimo futuro. L’idea che qualcuno non solo abbia letto e apprezzato ma addirittura abbia intenzione di rileggere il mio libro mi dà una lieve vertigine, per la quale ti sono debitrice per lo meno di un mazzo di fiori. Grazie.

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