Il corpo (stanco) ci insegna il valore del cibo

Per un progetto in cui sono coinvolta, e che spero di poter raccontare a breve, sto chiacchierando più del solito con gli agricoltori. Mi interessa sapere cosa succede in un’azienda agricola quando il periodo della raccolta si avvicina e c’è bisogno di un numero maggiore di persone per un periodo piuttosto breve.

Una trentina di anni fa era semplice. Arrivava l’estate e frotte di studenti con molto tempo libero si proponevano alle aziende agricole per raccogliere la frutta o gli ortaggi. Si faticava molto, si guadagnava il necessario per le tasse universitarie dell’anno dopo e magari anche per una dignitosa vacanza, oppure per mettersi un po’ in pace la coscienza se gli ultimi appelli non erano andati bene.

I “nostri” non ce la fanno

Oggi gli agricoltori raccontano altro. Al di là della eventuale complicazione burocratica per assumere gli stagionali, il refrain di tutti coloro con cui ho parlato è sempre lo stesso:

«Gli italiani non ce la fanno: oggi in campagna servono gli stranieri. I “nostri” sono pochissimi e molti di loro dopo mezza giornata nemmeno tornano per il pomeriggio, nemmeno tornano a prendere i soldi delle ore che han fatto».

Ma nemmeno i ragazzi?, chiedo. «Soprattutto i ragazzi», rispondono. 

Si spaventano, i ragazzi. Tutta quella fatica, tutta quella stanchezza, tutto quel caldo non li hanno mai dovuti sopportare per tutte quelle ore di seguito.

«Certo, anche in palestra sudano e si stancano, ma dopo un’ora vanno a fare la doccia, e non ci sono i pelucchi delle pesche che ti fan prudere anche posti che non sapevi di avere».

Gli anziani, invece, ancora reggono: gente con un passato rurale prende per le corna la giornata e la porta alla fine. E l’indomani di nuovo. Sapendo come muoversi, quanto muoversi, quanto parlare e quando, per non sprecare energie né tempo. Donne e uomini che con quelle piante, quei frutti, quei solchi ci sanno ancora ragionare, e lo fanno volentieri. Certo, per soldi, ma per bene. Ma sono pochi, sono sempre meno.

Meno stanchi, più ignoranti?

Non mi interessa, qui, la questione degli stranieri. Mi interessa invece capire quanta della nostra ignoranza in fatto di cibo, di alimentazione, di salute passa da questo allontanamento dal lavoro agricolo. Quante sono ormai le generazioni che non hanno mai lavorato, nemmeno per un giorno, nemmeno per una stagione, in campagna? E quali strumenti hanno, queste persone, per riconoscere la qualità di un frutto, l’equità di un prezzo, la stagione di un prodotto?

Ho più domande che risposte, ma di una cosa sono convinta: non è possibile recuperare il senso del cibo e del suo valore se non comprendiamo appieno il lavoro che esso comporta.

Cibo e lavoro sono sinonimi

Questa nozione, in altri momenti storici è stata parte integrante della cultura dei luoghi. In siciliano il grano duro maturo si chiama “lavuru”. Non quando è verde (quando è verde è erba) ma quando comincia a richiedere fatica, il nome del prodotto diventa lavoro. Mi domando quanti ragazzi siciliani -che pure in tanti ancora fortunatamente conoscono e utilizzano il dialetto – sappiano questa cosa. O se invece usano la parola “frumentu” che i loro nonni usavano anche, ma non per indicare le spighe. Magari per parlare dei semi, quelli da molire per fare il pane giallo e profumato che, anch’esso, in tante espressioni popolari è sinonimo di lavoro. Andare a guadagnarsi il pane significa andare al lavoro; portare a casa la pagnotta significa lavorare.

Se hai raccolto le olive una volta in vita tua, l’olio a 2,99 non lo acquisti. Se hai vendemmiato un solo giorno in vita tua, il vino a 1,85 non lo capisci.

Se invece non hai idea, ti va bene tutto: sarai convinto di aver fatto un affarone quando comprerai cibo sottocosto. Non avrai, a orientarti nella scelta, i ricordi della tua fatica e di quella dei tuoi compagni di lavoro.

Se nelle scuole non si parla nè di cibo nè di ambiente e nelle aziende agricole a lavorare non andiamo, come costruiremo le nostre competenze alimentari?

Non avremo le informazioni che avremmo dovuto studiare e mancherà anche tutta la parte che potrebbero insegnarci i nostri muscoli: quelli delle braccia, delle gambe, della schiena. Le nostre mani.

Provate voi…

Mentre ci addentriamo in questa strana estate, chi può e vuole faccia questo esperimento: si trovi un’azienda agricola che abbia bisogno di qualche giorno di bracciantato e alla fine dell’esperienza provi a dire a quanto venderebbe il prodotto che ha raccolto. E se pensate che una sola giornata non basta, se pensate, ancora, che “otto ore vi sembran poche”, seguite il consiglio della canzone, provate, e “sentirete la differenza”.

Anche a tavola.

15 risposte a “Il corpo (stanco) ci insegna il valore del cibo”

  1. Recuperare il senso del cibo e del suo valore a partire dalle scuole e’ fondamentale ,doveroso ma è una missione ardua e dolorosa ! Le nostre scuole ,ad esempio ,sono piene zeppe di distributori di cibo usa e getta che drogano le menti ed il corpo di ,alunni e professori.

    1. Grazie! spero che a breve questa cosa cambi. L’educazione ambientale ed alimentare (gastronomica) nelle scuole deve iniziare al nido!

  2. Ecco, condivido tutto: bisognerebbe progettare dei campi estivi dove invece che (fingere di) imparare l’inglese o a fare i nodi delle barche o che so io, i ragazzi vengano portati a raccogliere la frutta, a falciare l’erba, a irrigare o arare un campo, ad accudire mucche, maiali, galline. Una cosa che si potrebbe fare anche mantenendo il distanziamento sociale!! 😉

    1. Sono d’accordissimo. E credo che qualcuno già lo faccia, ma c’è un amplissimo margine di miglioramento!

  3. giampiero obiso dice: Rispondi

    Ho un’età che mi consente di tornare ai ricordi di vendemmie estive. Non mie, che le ho cannate tutte, confesso, ma dei miei compagni di scuola che riuscivano a fare quelle due tre settimane di lavoro che significava il potersi trovare soldi in tasca altrimenti irragiungibili. Avvolgimento veloce ad oggi, e nelle notizie degli ultimi giorni trovo quella delle palazzine in Campania dove una comunità di braccianti bulgari diventa un problema di sanità e sicurezza pubblica, e quella, di pochi giorni fa ma altrettanto raggelante, degli stabilimenti di produzione di carne (la definizione è già tutto un programma) in cui il numero dei contagi è così alto da richiedere un lockdown ad hoc per un pezzettino di territorio della grande Germania. In questo salto temporale, quello che è cambiato è proprio il lavoro. In termini di senso, valore economico, dignità, rispetto, rango costituzionale, normativa, relativa tutela legale. E siccome siamo in tema di diritti, è chiaro che se un lavoratore lo trasformi in uno schiavo allora i primi candidati a un posto in pulmino o in baraccopoli o lungo una catena di macellazione non possono che essere “quelli di fuori”. Tutto si tiene, come sempre. Tanto poi una “regolarizzazione” Bellanova’s style c’è sempre chi è disposto ad inventarsela o a farsela piacere. Lo so che vado fuori tema, e che parliamo di “lavuru”, ma si dice che siamo quello che mangiamo.

    1. Ma i produttori di cui parlo qui non sono quelli che schiavizzano o si servono dei caporali. Sono quelli che fanno tutte le trafile burocratiche per bene, pagano le visite mediche, fanno le lettere di assunzione e quelle di licenziamento, e rispettano le paghe previste. Anche per questo si avviliscono: perchè ogni volta che qualcuno “non ce la fa”, e sparisce dopo mezza giornata, loro ne devono prendere un altro, fargli fare la visita medica (70 euro), e via di nuovo, lettera di assunzione etc. Non sto sottovalutando nè negando il tema dei lavoratori stranieri sottopagati e maltrattati. E’ solo che stavo parlando d’altro. Di come abbiamo perso questa occasione di capire tanto della natura, del cibo e di noi stessi; e di come possiamo – se ancora possiamo – provare a recuperarla.

      1. giampiero obiso dice: Rispondi

        Hai ragione Cinzia, è vero, e il fuori tema me lo ero già segnato in blu. Fa rabbia anche a me che non ci sia spazio in cronaca per niente altro che la pubblicistica atroce sullo sfruttamento, e che i produttori onesti, al più, siano raccontati nel ruolo di vittime nei rapporti sulle storture del mercato dominato dalle catene di acquisto della grande distribuzione organizzata, o nei report sulle schifezze delle Monsanto di turno. E qui non entra in gioco il refrain del “cambiare narrazione” (mantra d’abuso frequente e di ben scarso effetto, peraltro). I narratori fanno il loro mestiere, e narrano ciò che a loro tocca narrare, per scelte editoriali di vario orientamento o per impellente necessità di inseguimento del virale. Ma anche qui corro il rischio di andare fuori tema un’altra volta. Maria e Barbara, nei loro commenti, parlano giustamente di interventi di tipo educativo, ma temo che il sale sparso a colpi di “tre i” sulle rovine del nostro sistema scolastico non ci farà vedere fili d’erba per un po’, a livello di sistema. Mi viene da pensare che, forse, tracciare una linea di dialogo su questo tema con i ragazzi dei Fridays For Future potrebbe avere senso. Anche per scongiurare il caso che, anche da quelle parti lì, la polarizzazione tra “politici” e “scienziati” non finisca per lasciare fuori da utili pensieri e azioni positive chi, con la natura, riesce ad avere ancora un rapporto armonico ed equilibrato, nonostante i politici e nonostante gli scenziati. Penso che ne abbiamo tutti un bisogno disperato, di equilibrio e armonia. Grazie per la tua risposta e per i tuoi articoli.

  4. Andrea Giaccardi dice: Rispondi

    Ciao Cinzia, proprio oggi riflettevo sul tema della fatica, stramazzato sul divano dopo una giornata nei miei campi.
    Hai fatto una riflessione interessante che da agricoltore non posso che condividere.
    E mi va di alzare l’asticella, parlando di tutti quei lavori che nessuno vuole più fare in campagna perché non produttivi: mi riferisco ai lavori di cura del territorio, come lo sfalcio dei rovi nelle scarpate, la siatemazione del bosco dopo la raccolta del legname, la pulizia dei canali anziché intubarli, l’utilizzo di siepi di bordura e la potatura degli alberi isolati (la capitozzatura non vale…) o addirittura la semina di fiori per aiutare la fauna selvatica.
    Ecco, quei lavori sono estinti, perché nessuno si sogna di pagare un dipendente senza un ritorno, e quello è considerato tempo perso.
    Io ho imparato dai miei nonni ad apprezzare il luogo in cui vivo e lavoro, e amo la natura al punto da dedicare molto sudore alla tutela del paesaggio.
    A gratis, e me ne frego.

  5. Bisogna ripensarlo, il significato della parola “produttivo”, per decidere davvero cosa lo è e cosa non lo è. Grazie Andrea, per quello che scrivi e per quello che fai.

  6. Brava Cinzia, con coraggio e chiarezza evidenzi un doppio problema: quello di questa generazione di giovani troppo abituati a trovare tutto pronto, e quello di capire il valore del cibo, non solo per loro, ma per molti ormai troppo lontani dal mondo della produzione agricola. Non è colpa dei giovani, ma nostra, della generazione precedente che li ha educati, che li accompagna a scuola anche da grandi, che vuole essergli amico, invece che educatore, che li difende sempre anche quando hanno torto, che gli compra un telefono che vale un mezzo stipendio senza fargli capire quanto è faticoso lavorare per comprarselo. Noi il motorino spesso ce lo compravamo con una stagione in campagna, faticando, e poi ne capivamo il valore, sia del motorino che del frutto del lavoro. E il valore del cibo oggi se non scegli per interesse personale di informarti, ormai nessuno te lo spiega. Solo pochi movimenti, come SlowFood, hanno messo il cibo in stretto contatto con chi lo produce e il mondo della società odierna. Troppi chef stellati in televisione e pochi contadini, troppe ricette esotiche e poca attenzione al modo di produrre. Ho fatto il contadino per 20 anni, ho scoperto così lati del mondo della produzione che avrei potuto vivere tutta la vita senza nemmeno sospettarli. Quando lo capisci non torni più indietro, fai di tutto per comunicare, per cambiare le cose, ma spesso ti scontri con interessi e politiche che invece credono ancora che anche il cibo debba stare come gli altri prodotti alle pure e semplici regole del mercato: minimizzare i costi, massimizzare la produzione, scordandosi di qualità e rispetto e ambiente e sopratutto tutto quanto è connesso a questo mondo anche in termini di cultura, di educazione, ti resilienza in momenti come quello che stiamo passando legato ad un piccolo virus che ha messo in ginocchio tutto il mondo.

  7. Grazie Marco, condivido ogni parola.

  8. Rileggendomi mi sono accorto di essere andato abbondantemente fuori tema, e pensare che volevo scrivere dei jeans. La consunzione naturale dovuta all’uso, di quanto si acquistavano nuovi e in produzione si controllava che neppure un piccolo maggiore spessore del filato rovinasse l’omogeneità della superficie, è decisamente diversa dal risultato generato da un progetto sintattico. Le marche storiche di prestigio (si dice così) hanno sviluppato gamme di finzioni che riproducono con attenzione l’usura generata dalla frequentazione dello sterco di vacca, del grasso d’officina, dei tronchi di abete, della polvere australiana… ma non c’è nulla da fare: per quanto il processo di consunzione sia raffinato, l’originale iconico, se confrontato, è decisamente diverso. Ciò che si acquista è solo una pallida imitazione del reale. La finzione è alla base del sistema consumistico, che non deve consumare ma chiudere il cerchio della produzione-acquisto-rifiuto sempre più velocemente e con il massimo profitto.
    Finta non è la condizione delle circa cinquemila donne che sdruciscono meccanicamente i jeans con sostanze chimiche aggressive e pietra pomice in uno dei pochissimi stabilimenti al mondo dedicati a questa lavorazione. Si trova in Romania, in una regione dove la quasi totalità degli uomini non lavorano. Aspettano le loro donne, si fanno consegnare lo stipendio, le picchiano, poi vanno ad ubriacarsi al bar, poi tornano a casa e le picchiano di nuovo perché trovano degradante vivere alle spalle delle loro mogli.

    1. Forse la parte in cui generalizzi sugli uomini rumeni è un po’ troppo tranchant ma il resto del commento (che tuttavia si riferisce all’articolo sugli oggetti, non a questo) lo condivido. Grazie!

  9. Ciao Cinzia,
    È sempre un arricchimento leggerti.
    Grazie.
    L’agricoltura non è un mondo a sé!
    Non potrebbe! Dà da mangiare a tutti noi, che per vivere e lavorare dobbiamo mangiare!
    Nell’ ERA DELLA COMUNICAZIONE, credo che lo scambio debba essere vicendevole tra agricoltura, trasformazione, confezionamento, marketing, distribuzione, ristorazione, turismo, scuola e formazione, educazione familiare, , politica, istituzioni e mondo intellettuale.
    L’agricoltore oggi deve essere bracciante, agronomo, meccanico, custode della tradizione, ma anche divulgatore dei tempi, delle regole, delle fatiche, dei costi umani e ambientali che il proprio lavoro comporta.
    Nel mezzo di questa dicotomia interna si colloca il mercato, che è normato da tutt’altri tempi, altre regole, che non considera i costi umani, poiché non certificabili e quantificabili ai fini del profitto.
    Di ritorno, quindi, l’agricoltore riceve dal mercato una conseguente svalutazione del proprio prodotto, che già all’origine della filiera viene svilito da un miserrimo riconoscimento economico, relegandolo di fatto fuori dal mercato ( il profitto, il guadagno vero sul cibo si verifica solo nell’ultima parte della filiera produttiva, dalla distribuzione in poi).
    Il contadino ha tra le mani un bene prezioso ( il cui prezzo mai potrà essere davvero commisurato al suo valore intrinseco) che, durante il suo viaggio verso lo scaffale del rivenditore, perde questa sua accezione e diventa merce con un prezzo ( il più basso possibile ) competitivo sul mercato.
    Valore e prezzo non sono interscambiabili, il valore ( fatto di sudore, pazienza, costanza, rischio, fortuna, luna, pioggia, sole, solidarietà, tradizione, innovazione, studio, scambio, baratto, relazioni umane) difficilmente può essere tradotto in un prezzo adeguato, d’altro canto il prezzo non riuscirà mai a comprendere tutto il valore in gioco.
    Tra due opposti c’è sempre una zona grigia che si può percorrere, che grigia non è, perché significa intraprendere la feconda strada dell’incontro e reciproco avvaloramento fra chi il cibo lo produce e chi lo acquista e consuma, in entrambi i casi si tratta di esseri umani, se questi due estremi vengono messi in COMUNICAZIONE diretta, chi lavora nel mezzo non avrà più il potere di dettare le incongrue regole del mercato che oggi sono dominanti.
    C’è lavoro per tutti, per colmare questa enorme voragine!
    Diamoci da fare!
    RIDEFINIAMO INSIEME IL VALORE!
    Un abbraccio
    Livia

  10. Grazie, Livia. Un prezioso contributo. Proviamoci!

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