La storia ci piace, ma non la studiamo.
Il rapporto che gli studenti (e, temo, parecchi insegnanti) hanno con la storia riflette il progressivo incarognirsi della relazione che abbiamo con il tempo.
Il tempo, un tempo, ci era amico. Disegnava le nostre rughe e questo ci sembrava semplicemente normale.
Gli oggetti d’uso quotidiano che si consumavano in alcuni casi diventavano inservibili, ma molto più spesso si adattavano a noi, diventavano i nostri preferiti. Quella camicia un po’ lisa, perfetta per andare in montagna, quei jeans sdruciti dai lavaggi e così accoglienti, quelle scarpe un po’ stortignaccole e proprio per questo così comode.
Gli oggetti invecchiavano con noi
Si consumavano anche perché avevamo meno oggetti. Lavavamo mille volte la stessa pentola, lo stesso asciugamano; ci siedevamo mille volte sullo stesso divano; i decori in rilievo sul metallo delle nostre posate si assottigliavano e quasi svanivano.
Il tempo passava su di noi e sulle nostre poche cose in modo gentile, ma soprattutto sensato. Si consumava quel che veniva molto usato. Ciò che restava nuovo si usava nelle occasioni speciali, che erano poche e sensate anche quelle.
Conoscevamo bene la storia dei nostri oggetti e in qualche modo conoscevamo meglio anche la nostra: anche noi, ai nostri occhi, eravamo unici e speciali.
Troppe cose, sempre nuove
Se un danno grave ci ha portato il consumismo, invece, è proprio quello di aver fatto diventare ogni nostro oggetto un oggetto qualsiasi, sempre sostituibile e sempre bisognoso di ulteriori esemplari identici. Non mettiamo più “i jeans”, ma “un jeans”. Ne abbiamo tre o quattro paia, tutti uguali, tutti blu, con lievissime differenze di foggia o sfumatura, e comunque li alterniamo con altre decine di capi, e – certo – li laviamo meglio, con lavatrici più raffinate. Il risultato è che i nostri jeans non si consumano, non raccontano più nessuna storia, non ci raccontano più la nostra, di storia, come facevano un tempo.
Il tempo è profondo
Non capiamo più quanto profondo sia il tempo; gli studenti leggono i libri di storia e colgono solo la superficie. Non vedono come si logorano le relazioni tra gli Stati, come si stropicciano le condizioni sociali portando alle rivolte, non collocano le decisioni dei potenti nel contesto della loro idealistica giovinezza o conservatrice vecchiaia. Leggono date, numeri ed eventi che a loro appaiono sempre nuovi, appena usciti dalle confezione. Non sentono i primi confusi vagiti dell’Europa Unita nel Congresso di Vienna, non registrano lo sfilacciamento della dittatura argentina nella folle decisione di far guerra per le Falkland, non seguono quell’unico filo, pieno di nodi e rattoppi, che collega la sfuriata di Gesù nel tempio all’affaire Dreyfus e alla tragedia dell’Olocausto.
Eppure siamo fatti di storie
Tuttavia, continuiamo a desiderare che gli oggetti ci parlino, ci raccontino cose.
Perché siamo fatti di storia e di storie. E allora, se non sappiamo più invecchiare né sappiamo fare invecchiare con grazia i nostri oggetti, se addirittura entriamo nella trappola dell’obsolescenza programmata e non proviamo nemmeno a riparare quel che si è rovinato, in qualche modo dobbiamo recuperare.
Magari con storie non nostre, con storie inventate, con storie apparenti, che fanno almeno finta di esserci.
Compriamo storie finte
Così compriamo jeans sdruciti, strappati, che mai e poi mai avremmo continuato a mettere se si fossero ridotti in quello stato i jeans che ci invecchiavano addosso. Scegliamo scarpe che sembrano già usate, ma invece sono nuovissime e costosissime, hanno l’aria vissuta, ma non hanno mai vissuto nulla. Magliette con i bordi dei colletti finto-sdruciti, un’imitazione di usura, un’imitazione di povertà forse. Anche la povertà, probabilmente, ha più storie da raccontare rispetto alla ricchezza.
La storia ci piace, ma invece di studiarla proviamo a comprarla. Ma non funziona.
Facciamo pace con il tempo
Quel che dovremmo provare a fare, per riuscire a innamorarci della Storia e di tutte le storie, sarebbe riappacificarci con il tempo. Il tempo ciclico della natura, dei gesti ripetuti, delle stagioni e delle lezioni.
Solo così potremmo tornare a sorridere alle nostre rughe e a quelle degli altri, ad apprezzare il profilo un po’ troppo lucido della nostra penna preferita e a rileggere un libro di storia immaginando che, alla fine della seconda guerra mondiale, si potesse notare qualche graffio di troppo sul bocchino della pipa di Roosevelt.
Ho riletto più volte e ho molto apprezzato “Il tempo dei nostri oggetti”. Si tratta di un argomento che frequento da tempo e che ha costituito il tormentone del mio mestiere di designer. Così ho provato a organizzare ancora una volta le mie idee, Ne è venuto fuori un pesante mattone che provo a inserire come commento.
Il designer è delegato a immaginare il futuro e a fornire al sistema produttivo e finanziario le idee e i progetti esecutivi che trasformano le immaginazioni in nuovi componenti del mondo reale. Valutazione dell’impatto ambientale, costi energetici, riciclabilità, durata, sono alcuni degli aspetti da considerare. L’intero ciclo di vita del prodotto, da materia prima a rifiuto deve comporre il processo del progetto consapevole. Questi principi di progettazione consapevole si scontrano quasi sempre con le esigenze dell’industria e della finanza, cosicché, altrettanto spesso è la comunicazione e il marketing, tinti di verde, a magnificare operazioni di facciata che ben poco attuano in concreto.
Esclusività di massa.
Interaction design, ergonomia, analisi delle funzioni e centinaia di altri strumenti teorici e metodologici scompongono il processo progettuale per rendere più agibili, usabili e comprensibili gli oggetti e i luoghi. Molto si è fatto per rendere più appetibile, desiderabile e funzionale il prodotto, anzi, l’analisi delle funzioni ha scomposto ogni funzione principale in sottofunzioni specializzate.
Abbiamo così il paradosso di prodotti di massa venduti in tutto il mondo che si presentano come artefatti capaci di soddisfare su misura la domanda esclusiva del singolo utilizzatore. È sufficiente guardare lo scaffale dei dentifrici o degli sciampo in un qualsiasi magazzino della grande distribuzione per rendersi conto della sconfinata segmentazione strategica che un prodotto in sostanza uguale può assumere con la semplice enunciazione di specificità dichiarate. Anche perché è molto più facile aggiungere qualche nuovo elemento al packaging che alla pasta dentifricia.
La massificazione fa sì che in luoghi più disparati troviamo spazi urbani, luoghi pubblici o privati e strumenti e oggetti d’uso personale, perfettamente omologati e intercambiabili. I principi economici e finanziari, i materiali, i processi e gli apparati produttivi, il sistema di distribuzione, i contenuti della comunicazione, l’effetto esponenziale dei nuovi media e dei social, hanno determinato una convergenza, un appiattimento e una massificazione e omologazione della conoscenza e del sistema di valori per cui le differenze fra il trovarsi, ad esempio, a Torino o a Buenos Aires sono sempre più marginali.
Il ciclo di vita con l’oggetto/soggetto.
Un campo d’indagine interessante riguarda il rapporto che s’instaura fra la persona e l’oggetto nel momento d’uso. L’usabilità degli artefatti e degli ambienti costruiti è possibile solo a condizione che fra utilizzatore e oggetto s’instauri una relazione. Nel momento in cui l’oggetto entra nel campo d’azione cosciente dell’utente assume un significato, produce una relazione bidirezionale e da cosa diviene oggetto e, da oggetto, soggetto. Senza questa trasformazione semiotica la relazione dialogica non sarebbe possibile.
O gli oggetti si perdono nello sfondo delle cose e non rientrano nel percepito, oppure si manifestano come significato, quindi come segno, quindi come soggetto dialogante. È nella natura umana, nel mettere in atto una epistemologia, che ogni oggetto del mondo che da sensazione diviene percezione, generi un’interpretazione, un’attribuzione di senso e un dialogo. Gli oggetti ci parlano, con il loro linguaggio, coi loro mezzi espressivi, ma ci parlano, comunicano con noi.
Gli oggetti sono supporto di significati, valori, credenze, giudizi che su di essi si fissano e contribuiscono a comporre i nostri valori di riferimento circa lo stato del mondo. Sono supporto di memoria, contengono ricordi ed emozioni , generano stati mentali, contribuiscono a strutturare la rete semantica con la quale viene decriptato, ricomposto e incasellato lo spazio in cui si vive.
Le nostre case sono oggetti pieni di oggetti la cui funzione pratica è marginale, mentre è predominante la funzione evocativa. La funzione transizionale dell’oggetto travalica la descrizione originale sostitutiva elaborata dal genio di Donald Woods Winnicott per estendersi all’universalità degli artefatti e al modo in cui con essi ci relazioniamo. I valori simbolici, i codici affettivi, le capacità sostitutive e tranquillizzanti, emulative, fissative, acquietative e di costruzione di sé, gli stimoli emozionali che generano ben oltre la coperta di Linus, sono parte fondante del processo di acquisto e possesso degli oggetti-merce e di collocazione nel nostro spazio vitale costruito.
La comunicazione del prodotto completa il lavoro di costruzione del destinatario iniziata dal designer. La pubblicità non fornisce informazioni sugli oggetti, mostra il consumatore nell’atto di consumare ed enfatizza gli effetti che il consumo della particolare merce produce. Spesso si tratta di un prima e dopo condensati in un solo tempo presente, così come avviene nei fumetti, nei quali il dialogo nella nuvoletta non è mai in sincronia con l’immagine che compone la singola scena.
Un presente senza futuro ne’ passato.
Gli artefatti sono parte attiva nelle relazioni interpersonali, e questo sia in caso di oggetti inerti sia biologici come le colture e gli allevamenti, anch’essi derivanti da un progetto e da un processo industriale, e sia in caso di apparati dotati d’intelligenza artificiale. Questi ultimi, più di altri, possono generare dipendenza e asservimento. Il processo che li determina travalica i confini dell’oggetto fisico e della sua interattività e, utilizzando metodologie evolute costruisce artefatti protesici che pretendono una relazione simbiotica. Il dialogo con l’apparato, che sempre più spesso richiede di essere accudito e utilizzato secondo precise regole, produce un’estraniazione dalla realtà reale e un trasferimento mentale nella realtà virtuale. La dipendenza attenzionale costante e prevaricante prodotta dallo smartfone difficilmente trova analogie nei rapporti interpersonali umano-umano anche in presenza di stati patologici ossessivi.
Questi oggetti sostituiscono sempre più le relazioni dirette fra persone. La mediazione genera un nuovo tipo di contatto e di conoscenza. Sempre più il design definisce e progetta l’utilizzatore della merce, contemporaneamente all’oggetto. Il progetto diviene così pervasivo da risultare totalizzante: cosa fare, come farlo, quando farlo e perché.
La memoria.
L’identità e il ricordo trovano negli spazi di vita e negli oggetti quotidiani la base su cui fissarsi. La personalità sociale trova supporto negli oggetti, nella loro fattura e disposizione nello spazio domestico. In quest’ottica la rete degli oggetti forma il corrispettivo della rete neuronale. La memoria, oltre che su neuroni, si fissa sugli oggetti per mezzo di sinapsi virtuali che connettono la persona all’ambiente costruito.
Dove termina la persona? Se la prossemica di Hall ci suggerisce che gli spazi individuali e sociali vanno ben oltre le dimensioni fisiche del corpo, possiamo affermare che la personalità, gli elementi che formano le caratteristiche mentali, mnemoniche e cognitive delle persone, si estendono nello spazio, cooptano gli oggetti, dialogano con essi in un continuo interscambio di valori e significati.
Se si estende l’idea di ciclo di vita con gli oggetti a quella di ciclo di vita con ciò che del mondo conosciamo, con gli oggetti che costituiscono il nostro ambiente fatto da quanto sappiamo dell’Universo, si può valutare che il corrente approccio banalmente utilitaristico, tecnologico e consumistico in atto, risulta molto riduttivo, banale e incapace di descrivere le relazioni profonde.
Ci siamo noi, ci sono gli oggetti, del tutto coerenti, logici, finalizzati all’uso e al consumo. Non c’è il tempo, non c’è la consunzione, non c’è la relazione, non c’è il dubbio.
Il dubbio, invece, che l’ambiente costruito e derivato da modelli mentali approssimativi presenta delle falle, delle pesanti incongruenze, enormi forzature dell’economia della crescita sull’economia dell’equilibrio, può portare a una diversa visione che, in qualche misura, dovrebbe contribuire a dare un senso concreto al concetto di ecologia di cui si parla sempre più a vanvera e in funzione diversiva.
Grazie Rodolfo. Anche io avrò bisogno di qualche rilettura di questo tuo intervento così ricco di spunti. Una bellissima riflessione.
Che bell’articolo! E tocca un tema che mi sta assai a cuore. Ho vissuto per anni a Los Angeles e ogni week end nelle strade la gente tirava fuori gli oggetti della propria casa che non usava più per metterli in vendita nel suo front yard. Si chiamano per questo yard sales. Noi eravamo grandi frequentatori di queste specie di mini Porta Portese. Compravamo di tutto a pochissimi centesimi ma la cosa che mi turbava e angosciava di più era che gli oggetti per la maggior parte erano nuovi di pacca, piatti mai usati, bicchieri e piccoli elettrodomestici ancora nelle loro confezioni, centinaia di microonde intoccati. La gente dunque li comprava e li buttava senza nemmeno usarli. Quando ne chiedevo il motivo mi rispondevano immancabilmente che erano usciti modelli più nuovi e interessanti e dunque si erano sbarazzati dei precedenti. Io che sono un’inguaribile “serial hoarder” un’accumulatrice seriale che non riesce mai a buttar via nulla, ne soffrivo come se mi pugnalassero. Ora senza arrivare ai mei estremi bisognerebbe rivalutare gli oggetti, io ho una mezzaluna che uso in cucina con il manico di legno, che viene da un convento siciliano di suore, deve avere almeno 100 anni a giudicare dalle sue consizioni ma non mi sognerei mai di buttarla, mi racconta ogni volta tante storie, inclusa la Storia, e ho sempre pensato che la totale ignoranza degli Americani in merito alla storia del mondo sia, almeno in parte, dovuta a questa mancanza di empatia verso gli oggetti, al loro licenziarli prima ancora di usarli. Perchè in fondo se teniamo in poco conto gli oggetti, se non ci interessiamo a loro, non ci interessano nemmeno i loro proprietari, la loro vita e ciò che durante la loro vita è accaduto. Amo molto chi fa ricerche sulla memoria delle cose, anni fa ho scoperto un artista salentino che costruiva delle vere e proprie storie famigliari partendo da scatole nere, ciascuna rappresentava un membro di una famiglie e all’interno c’erano tutti gli oggetti che incarnavano l’animo, definivano l’esistenza, di quella persona. E’ un progetto che mi ha molto affascinato e mi piacerebbe venisse lanciato a livello nazionale, per non perdere la nostra memoria e con essa la nostra storia.
Grazie Stefania, condivido ogni tua parola. Credo che il punto siano, ancora una volta, i soldi. Tantissimi anni fa insegnavo in una prima media e vidi uno dei bimbi che stava affettando sottilmente con un cutter una gomma nuovissima, rendendola, ovviamente, inservibile. Gli dissi di non farlo, perchè era una gomma nuova e non bisognava sprecare così le cose. Mi rispose: “ma non l’ho mica comprata con i suoi soldi, perchè si preoccupa?”. Cercai di spiegargli che stava affettando e tra poco avrebbe buttato nel cestino molte cose: le risorse naturali, le conoscenze e il tempo che erano serviti per produrre quella gomma, e il tempo che i suoi genitori avevano lavorato per guadagnare i soldi che erano serviti per comprarla. Non ci riuscii. Insisteva con la questione dei soldi. Gli sequestrai il cutter e la gomma, dicendogli che comunque non doveva distrarsi e che poteva tagliarsi e procedetti con la lezione, guardando di tanto in tanto il suo broncio al primo banco. A fine mattinata glieli restituii. Avevo prolungato la vita della gomma di qualche ora, ma non so se l’ho salvata.
Sì la cosa che rattrista di più e che a me turba maggiormente è proprio che anche qui da noi, con un passato di miseria così recente, nessuno ricorda più nulla e soprattutto nessuno sembra più saper riconoscere il valore delle cose. E’ un atteggiamento che fa paura.