Ve lo ricordate lo spot del Tavernello di qualche tempo fa? Purtroppo era uscito dopo la pubblicazione del mio libro “Che mondo sarebbe – Pubblicità del cibo e modelli sociali” e quindi non avevo potuto includerlo nella casistica analizzata in quel saggio.
Lo spot si costruiva su una carrellata di splendide fotografie virate seppia che alludevano al lavoro in vigna fatto come si faceva “una volta”: il vecchio rugoso, la vendemmia manuale etc. A fare la vendemmia manuale c’era ovviamente la foto di una splendida giovane donna alta e snella che dopo essersi premurata di indossare una maglietta che le lasciava le spalle completamente nude aveva pensato bene di caricarsi, a contatto con la sua pelle perfetta da abbonamento alla beauty farm, una cassetta di legno – di legno! – piena d’uva.
I filari facevano da cornice al suo sguardo assorto e ai suoi capelli venivano opportunamente scompigliati dal vento; un paio di guantoni da manovalone, con i quali non si sa come avrebbe mai potuto manovrare un paio di cesoie, completavano il quadro.
Ci risiamo, mi ero detta, il solito chiché della donna raffigurata in atteggiamento sexy, qualunque cosa faccia. Ho aggiunto il fotogramma alla lista delle immagini che faccio vedere durante le mie lezioni sulla comunicazione dei prodotti alimentari e non ci ho pensato più di tanto.
A ricordarmi la bella quanto improbabile bracciante stagionale arriva lei, la Spigolatrice di Sapri in negligé e fresca di parrucchiere, che con una mano controlla pudica che la scollatura regga e con lo sguardo sereno guarda lontano il nulla apparente.
Fortunatamente, ci racconta la poesia che ha dato vita a tutto questo, quel giorno la spigolatrice era sì uscita di casa per andare a spigolare, ma poi aveva cambiato idea.
È il 28 di giugno del 1857, fa un caldo porco, siamo in provincia di Salerno. Lei è una spigolatrice, cioè una che gira per i campi di grano dopo la mietitura nella speranza di racimolare le spighe scampate al taglio. Non se la passa benissimo, evidentemente, la signora. Eppure, nel suo guardaroba non manca l’abito adatto ad un galà della Fashion Week, che valorizzi le sue forme e chiarisca, a imperitura memoria, che Pippa Middleton, con il suo abitino fasciante al matrimonio della sorella, alle spigolatrici di Sapri può, eventualmente, spicciare casa.
Come mai, sebbene pressata dall’indigenza, ha cambiato idea e di spigolare quel giorno non se ne è parlato? Non già perché si è resa conto di non avere indossato gli abiti consoni a una giornata di lavoro nei campi, ma perché ha visto arrivare, via mare, un nutrito gruppo di giovani aitanti. La Spigolatrice di Sapri non è proprio un’outfit coach, ma invece di politica ne capisce e sa bene che quei trecento, giovani e forti, non sono una minaccia per la classe lavoratrice, anzi il loro obiettivo è il dominio borbonico, e se ne accerta grazie ad una breve intervista col capitano (il povero Carlo Pisacane che chiuderà quel giorno la sua breve avventura terrena); decide dunque di seguirli per vedere che succede, e pazienza la spigolatura. Quella sera, a casa della spigolatrice, avranno ordinato al cinese.
Sicché li segue e assiste al massacro di tutti quanti: “Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!”. Era cominciata circa tre settimane prima, quell’insurrezione, aveva già subito una quantità di sfighe inenarrabile, ma i trecento non si erano arresi e da Sapri progettavano di marciare su Napoli, contando sull’alleanza delle classi più povere. Invece furono proprio i contadini (ai quali i Borbonici avevano rifilato una serie di fake news – “Li disser ladri usciti dalle tane, ma non portaron via nemmeno un pane” – a proposito dell’arrivo di una banda di detenuti evasi e pericolosissimi) che li passarono per le armi, anzi, per le falci e i forconi. Scene raccapriccianti, davanti alle quali la spigolatrice perde i sensi (“ma a un tratto venni men, né più guardai”) e non sappiamo come le sia finita la giornata e soprattutto che fine abbia fatto quell’abitino delicato certamente inadatto alle fatiche agricole, ma altrettanto sconsigliabile se si ha intenzione di svenire in una strada dove il sangue sta scorrendo.
Lo sguardo sereno della statua ci lascia tuttavia temere – o più misericordiosamente augurarle – una qualche forma di demenza precoce che avrebbe colto la poverina, una sorta di shock post-traumatico che l’artista ha voluto sottolineare.
Esci di casa per andare al lavoro e – da come ti vesti – è lecito supporre che già in partenza tu non sia completamente rifinita; se poi i tuoi compaesani ti sbudellano sotto gli occhi alcune centinaia di giovanotti, il guaio è completo, te ne resterai lì immobile per l’eternità a sorridere al vuoto e a mandare ai posteri un messaggio di grandissimo valore etico e sociale: non solo le rampolle dell’alta aristocrazia inglese, ma anche le spigolatrici del meridione d’Italia, possono avere delle belle natiche. Gli insurrezionisti di Sapri avevano ogni ragione.
Ne facciano tesoro le attuali e future generazioni delle classi dirigenti del paese, per non dire degli intellettuali e artisti il cui ruolo, come si sa, è quello di dar forme al sentire del loro tempo. (Come? Si dice dar forma? Sicuri? Sicuri sicuri?).
Chissà com’è che me l’ero fatta un tantino meno pinup pure io che al sessismo ho fatto il callo…
Il commento mi sembra molto centrato. Grande discussione per qualche gg sui media altrimenti nessuno si filava la notizia. Brava Cinzia. Fiorenzo
Diversi anni fa mi è accaduto di lavorare al progetto d’identità di una società allora all’avanguardia nelle applicazioni dell’informatica, poi diventate d’uso comune. Nel parlare della monografia di presentazione dell’impresa, con mio assoluto stupore e imbarazzo, l’ingegnere presidente mi suggerì di mettere una donna nuda in copertina, perché va sempre bene a attira l’attenzione. Dopo il totale spaesamento e scartata l’ipotesi di una pessima battuta cretina, mi ci è voluto del bello e del buono a far recedere l’imbecille dal suo proposito miserabile. Questo per dire che certe cose non si fanno da soli e che i committenti partecipano alle nefandezze in complicità con l’autore.
Questa cosa che vorrebbe essere una statua, è più che brutta: è meschina, deforme e sciatta. Rivela le pruderie pornobacchettoniche degli italici assessori alla cultura, dei membri (!) delle commissioni giudicatrici, dei consiglieri… i quali, –forse non in questo caso?– in cambio dell’approvazione del bozzetto anelano ad andare a cena con la modella, povera ragazza raccattata dallo psdeudoartista.
Questa roba, che non oso chiamare scultura, questo sfregio alle proporzioni e alla storia dell’arte figurativa non solo offende le persone ma insulta il passato, impoverisce il mondo e lo rende più brutto, certamente peggiore.
Bravissima Cinzia! Un’analisi perfetta!