Le riflessioni sulla discutibile performance di Suarez e dei commissari d’esame per il rilascio di un certificato che attesti un qualche livello di padronanza della lingua italiana mi hanno portato ad approdi non previsti.
Mi sono chiesta, infatti: ma davvero ha senso legare il possesso del passaporto italiano (ovvero l’assegnazione della cittadinanza) alle competenze linguistiche?
Quanti sono i “rivedibili”?
Ragazzi diplomati e italianissimi maneggiano maldestramente un patrimonio di 500 parole scarse. Il loro essere cittadini italiani dipende dai loro genitori e da dove sono nati e non viene quindi minato da questo elemento: io, tuttavia, proporrei di rivedere il loro essere diplomati. Si può a cuor leggero licenziare da una scuola superiore italiana uno che scrive che il caffè viene trasportato in sacchi di Utah? Si può sopportare che non distinguano tra il verbo “servire” e il verbo “riverire” (sicché scrivono, convinti, che una determinata mensa riverisce alcune migliaia di studenti)?
Gli esempi potrebbero andare avanti all’infinito e sono sicura che molti tra voi aggiungerebbero perle altrettanto preziose e numerose.
Chi deve sapere l’Italiano?
Qual è il punto? Se vivi e lavori in un paese che non è il tuo devi saperne comprendere la lingua? Sicuramente no. Ho cari amici stranieri, che lavorano in FAO (e dunque vivono a Roma) da trent’anni e ancora parlano l’italiano come se fossero sbarcati a Fiumicino ieri (jet lag incluso). Nessuno li molesta chiedendo di dare esami di Italiano, anzi, appena si varca la soglia di quel palazzo è bene che anche gli italiani (visitatori o dipendenti non importa) impostino il loro cervello sulla modalità “English” altrimenti potranno parlare a mala pena con gli uscieri.
Serve per votare?
Allora? Forse che essere cittadino italiano comporta la possibilità di esercitare un voto e dunque è bene che il futuro elettore abbia gli strumenti per comprendere quel che vota? Potrebbe aver senso. Ma allora perché questi strumenti, che in Italia e per gli Italiani vengono veicolati dalle scuole dell’obbligo e dalle scuole superiori, sono stati presi a mazzate negli ultimi trent’anni, in ogni modo possibile, sicché oggi abbiamo studenti universitari incapaci di fare un riassunto, di raccontare una trama, di disegnare rapidamente la mappa concettuale di un’opera, di collegare in un paio di passaggi il pensiero illuminista alle vicende di Frankenstein? No, il voto evidentemente non è il problema: anzi, più ignoranti siamo, più rapidamente e ordinatamente reagiremo al latrato che di volta in volta ci verrà indirizzato, che sia “gli immigrati!”, o “le tasse!” o “la libbertàh” non importa.
Serve per rispettare la legge?
Forse allora è che se sai bene l’italiano capisci bene le leggi, le norme da rispettare, e dunque le rispetti. Anche questo sembra aver senso. Ma ci sono fior di dirigenti che evadono le tasse, fior di amministratori plurilaureati che corrompono o si lasciano corrompere, fior di cittadini italiani con tutti i congiuntivi in ordine che uccidono mogli e figli. Dunque no, non può essere questa la preoccupazione di chi ha deciso che per diventare cittadini italiani bisogna dimostrare di conoscere la lingua nazionale. In fondo per rispettare le leggi di un paese, basta volerle rispettare: fatti salvi i principi generali (i codici penali in fondo si assomigliano tutti), sulle specifiche norme nazionali un po’ di prudenza, di buon senso e di buona volontà possono risolvere.
Un’arrogante goduria
L’unica spiegazione che riesco a darmi sta nella protervia dello scegliere l’ignoranza come privilegio.
Decidere di non evolvere, crogiolarsi, perseverando, nella propria incapacità di comprendere un ragionamento un po’ sfumato, o nell’assenza di qualunque competenza di carattere storico o geografico è il privilegio di chi vuole sottolineare di non aver nulla da dimostrare a nessuno. Se date a un connazionale un consiglio su come abbinare i colori nell’abbigliamento vi ringrazierà; provate a illustrare come si abbinano gli ausiliari dei verbi servili con i verbi di movimento e il minimo che vi potrà capitare è che sbuffi dicendo “io parlo come mi pare”.
Forse è per difendere questi momenti di arrogante goduria che chiediamo agli stranieri di imparare la nostra lingua. È come chiedere agli ospiti di togliersi le scarpe per entrare in casa nostra mentre noi varchiamo la soglia con gli stivali infangati: cavoli, è casa nostra, e facciamo come ci pare, le regole (anche quelle grammaticali) le rispettino loro, che così almeno si ricordano che non siamo tutti uguali e devono stare al loro posto.
Ius soli subito: da soli non ci salviamo
Però: con gli “stranieri” che sono nati qui, che parlano la nostra lingua con i nostri accenti (e spesso senza errori), che hanno frequentato in Italia ogni ordine e grado di scuola ma ancora non riescono ad ottenere la cittadinanza, con loro, come la mettiamo? Cosa devono ancora dimostrare, e soprattutto a chi? Qual è il problema con loro? Che capirebbero bene come e cosa votare o – addirittura – si potrebbero candidare? Che conoscono le nostre leggi al punto che alcune le vogliono cambiare e saprebbero come migliorarle? Che entrerebbero nelle file della pubblica amministrazione? Oppure è solo che ci fa venire il nervoso (e francamente un po’ di magone) il loro entusiasmo all’idea di essere cittadini italiani, l’allegria che hanno al solo pensiero di diventare come noi, mentre noi ci piacciamo sempre meno?
Coraggio, cari governanti, smettete di baloccarvi e correte ai ripari: ius soli subito, è l’unica salvezza.
Come sempre riesci a sviscerare le questioni ed esporre in modo piacevolissimo il tuo pensiero. Condivido l’opinione che la perfetta conoscenza della lingua italiana non debba essere elemento essenziale per acquisire la cittadinanza.
Però alla domanda – Se vivi e lavori in un paese che non è il tuo devi saperne comprendere la lingua?- io risponderei di sì. Al di là dei funzionari della FAO citati, conoscere bene la lingua serve, agli italiani innanzi tutto, ma anche agli stranieri, in particolare alle donne. Penso alle più anziane, per esempio, che continuando a parlare la lingua d’origine, rimangono ritirate in famiglia, spesso emarginate dalla vita sociale. Grazie
Grazie! Certo che serve, ma non è un obbligo. E più soldi guadagni, con il tuo lavoro, meno è obbligatorio, sembrerebbe.