Calabria, terra nostra

Bianco conta poco più di 4000 anime, in provincia di Reggio Calabria. Vicino a Bianco c’è Africo, quasi 3000 abitanti, che qualcuno ricorderà protagonista di un film duro, bello e scomodo di Mimmo Calopresti (Aspromonte – La terra degli ultimi). Tra Africo e Bianco si snoda una storia fatta di lavoro, dolore, bellezza e speranza.

Ad Africo vivono due fratelli: uno ha un vivaio, l’altro un’azienda agricola che produce una passata straordinaria e un succo di bergamotto che dici sempre solo un bicchiere ma poi un bicchiere non basta mai.

Le famiglie di entrambi hanno una storia di dolore profondo, improvviso, di quelli che segnano il prima e il dopo. Nel 2004 muore uno dei figli del fratello vivaista: stava giocando, viene colpito alla testa da una carrucola, muore portandosi altrove i suoi 14 anni e strappando il senso della vita dei suoi familiari. Nel 2009, in un incidente d’auto, muore a vent’anni una dei figli del fratello agricoltore: un’altra esplosione di dolore, un’altra voragine che si apre tra tutti loro e il futuro.

Dal dolore, l’energia

Ma le esplosioni sono liberazione di energia. Si può lasciare che quell’energia si disperda, oppure si può provare a convogliarla da qualche parte. Morire giovani è l’impensabile, l’impensato. Se l’impensato succede, lo sgomento ti cambia, per sempre. Da quel momento in poi tu sei quella persona lì: quella che si è spaventata oltre l’immaginabile, che ha sperato non fosse vero, che ha capito che era vero e poi ha dovuto decidere come continuare a respirare, un minuto dopo l’altro, a camminare, un passo dopo l’altro, ha dovuto fare i conti con l’idea insopportabile di non sentire mai più quella voce, di non poter più chiamare quel nome.

Continuare a chiamarli

I nomi, per l’appunto. Dai nomi si può ripartire. Dai nomi e dall’energia che può dare il dolore. E da un piccolo capitale da utilizzare perché i soldi delle assicurazioni “non potevamo spenderli per la normale amministrazione”.

Nasce così – da quei padri, quelle madri, quei fratelli e quelle sorelle alle prese con la morte – l’idea di fondare una scuola di formazione post-diploma. Una scuola per chef, che insegni ai ragazzi l’importanza delle produzioni di qualità, i meccanismi che guidano il mondo della natura, le tecniche di trasformazione dei prodotti in piatti, l’importanza di un’alimentazione sostenibile.

La vita, insomma.

Una scuola per cuochi moderni

Una scuola gratuita, finanziata proprio da quel capitale che serve innanzitutto a restaurare una villa liberty nel centro di Bianco. Un piccolo gioiello di provincia abbandonato al degrado, un rudere che diventa metafora: raccogliere i cocci, affrontare le macerie, e farne qualcosa di buono e di tutti.

Un programma didattico messo a punto da Silvio Greco, ricercatore calabrese che nonostante i tanti anni passati altrove non ha mai interrotto né indebolito i legami con la propria terra, e da Bruno de Francesco, trentacinquenne chef dello Zenzero di Serra San Bruno, un paese in provincia di Vibo Valentia (122 chilometri da Bianco, che con la viabilità di quella regione diventano due ore d’auto).

Docenti che arrivano da tutta Italia, da diverse università e da diverse esperienze: accademici, produttori, imprenditori, figure istituzionali. Il capitale delle due famiglie paga i viaggi, i soggiorni e i compensi dei docenti che arrivano da più lontano. L’amore per questa regione paga il resto: i relatori locali sono a titolo gratuito, così come l’azione di coordinamento di Greco.

Omaggio ai pionieri

L’anno scorso il debutto e, nonostante il Covid-19 che ha costretto a modificare il programma (lezioni e tirocini), Bianco ha visto sbocciare 9 ragazzi che oggi hanno un profilo professionale forte, un progetto di vita chiaro e, soprattutto, un lavoro. Nove ragazzi che sono stati i pionieri di un progetto su cui pochissimi hanno scommesso, non c’è stato il problema delle selezioni l’anno scorso: la Calabria non è una terra facile agli entusiasmi, e nemmeno il fatto che per gli studenti la scuola sia totalmente gratuita ha indebolito le diffidenze. Quei nove, lo ripeto, sono stati nove pionieri, nove progetti individuali e personali che con le loro incertezze e le loro confusioni hanno deciso di confluire in un progetto collettivo, che a sua volta portava in dote una misura di incertezza e confusione.

Il secondo anno della scuola di Bianco

Il secondo anno scolastico è appena partito, con l’emozione di sempre e le speranze nutrite dall’esperienza precedente: 70 candidature, questa volta, e 10 selezionati. Il numero chiuso è dato dalle postazioni della cucina didattica. Più di tanto non si può fare. Ancora una volta i ragazzi sono lì, all’opera, tutti i giorni, con le mille domande che non fanno e le mille che fanno, con le cose che sanno e quelle che impareranno. E con il conforto dei ragazzi dell’anno prima, che spesso passano a dare una mano, in occasione degli eventi più importanti, oppure al giovedì, quando la scuola si apre alla cittadinanza offrendo una chiacchierata pubblica con il docente di turno, abbinata ad un assaggio. Perché “Uno chef per Elena e Pietro” – questo è il nome della scuola, per continuare a chiamare i due ragazzi scomparsi, e a parlare con loro – non è solo la scuola di quei primi 9 allievi, dei 10 attuali e di quelli che verranno. È la scuola di Bianco, di Africo, di questa Locride la cui bellezza potente si appoggia su un passato luminoso, su una impellente voglia di futuro e su un presente che nasconde le sue perle, ma le regala a coloro che le sanno cercare e riconoscere.

Soldi pubblici per il bene comune

Tra costoro ci saranno le istituzioni? Il capitale iniziale non dura per sempre, ma ha già dimostrato quello che doveva dimostrare: cioè che in Calabria le cose si possono fare e ci sono imprenditori straordinari che non aspettano che qualcuno si metta al posto loro e le cose, semplicemente, le fanno e le fanno per bene.

Le istituzioni invece le cose le devono fare: devono appoggiare – con soldi pubblici – i progetti che lavorano per il bene comune, devono mettere risorse pubbliche a disposizione di queste imprese. Imprese, sì. Senza fini di lucro, ma con fini di benessere comune e di promozione territoriale: ragazzi così, formati, consapevoli, professionali parleranno al mondo di una Calabria vera, attuale, in movimento. Una Calabria in cui vale la pena non solo venire per le vacanze, ma anche investire.

Perché a ragazze e ragazzi così, con le loro parole competenti, le loro mani precise, i sorrisi pur nella stanchezza, Muccino – ora che ha finito con il filmino delle vacanze di Raul e Rocìo – può spicciare casa.

6 risposte a “Calabria, terra nostra”

  1. Una storia bellissima, un articolo bellissimo. Grazie Cinzia,

    1. Grazie Stefania. Se mai si riuscisse a combinare anche una tua lezione… sarebbe bellissimo, non pensi?

  2. Grazie Cinzia,
    da figlia di immigrati calabresi conosco bene quel senso di appartenenza, il dolore dell’abbandono e quelle radici che ti riportano, nonostante tutto, sempre al luogo del cuore. Conosco la zona di Bianco e Africo, ho amici e parenti che arrivano da quei luoghi e il dolore lì c’è, il dolore che hai ben descritto. E la Calabria non è “soltanto” bergamotto e clementine, forse Muccino potrebbe frequentare un po’ la scuola.

    1. Grazie, Maria! Muccino alla scuola di Bianco, come allievo, è una splendida idea!

  3. Forza ragazzi, storia bellissima!!

Lascia un commento