E’ uscito da qualche mese, ma vale la pena di tornare a parlarne, perché tra i tanti danni di quest’era Covid dobbiamo elencare (purtroppo e paradossalmente) l’affievolirsi dell’attenzione sul tema della plastica monouso, o meglio la ripresa prepotente del suo utilizzo per futili ragioni (le cannucce nello spriz, per fare un esempio) e l’accantonamento delle normative che dovevano frenare la produzione di packaging inutile e di oggetti usa e getta.
Per questo La plastica nel piatto di Silvio Greco (uscito a gennaio nella collana Terra di Slow Food/Giunti/Unisg nella collana Terra Futura, del cui comitato scientifico mi onoro di far parte) va letto, riletto e, soprattutto, applicato.
Meno di 200 pagine per rovinarsi la giornata in corso e la totalità dei pasti a venire e per seguire la storia, narrata con agilità e precisione, di un’ottima idea che sembra esserci sfuggita di mano.
Un’idea da Nobel è diventata un incubo
Materiale economico, versatile, duraturo: perfetto sostituto di una serie di alternative meno disponibili e mallebili (metalli), meno facili da igienizzare (legno), più pesanti e fragili (vetro), meno resistenti (fibre tessili naturali), la plastica può a buon diritto essere annoverata tra le grandi scoperte dell’umanità. Infatti i due scienziati che l’hanno inventata, l’italiano Giuliano Natta e il tedesco Karl Ziegler si sono aggiudicati il Nobel per la Chimica del 1963.
Nel frattempo di plastica, al singolare, non si può più parlare: la famiglia delle plastiche si è ingrandita e diversificata, ramificandosi in un albero genealogico degno della più intricata dinastia (e che viene dettagliatamente illustrato nel libro).
Il caso, l’avidità e un malinteso
A meno di sessant’anni dal suo esordio, tuttavia, non arrivano solo buone notizie dal fronte dell’utilizzo della plastica, per molteplici ragioni: alcune figlie del caso, altre dell’avidità e di un grande malinteso che unisce l’idea di successo e di progresso a quella di consumo e di spreco.
Le ragioni figlie dell’avidità e del malinteso senso di modernità sono quelle che ci hanno condotto ad utilizzare un materiale che sapevamo essere duraturo… per produrre oggetti monouso. Come mai siamo stati così stupidi? Come mai questo non è successo con il ferro o con il legno? La risposta è banale: perché la plastica costa poco e gli oggetti che con essa si possono produrre sono figli di processi altamente industrializzabili (che significa, sostanzialmente, che se ne possono fare tantissimi, in pochissimo tempo e con bassissimi costi).
Alcuni di questi usi sono indiscutibili e la lista dei vantaggi che li riguarda supera quella degli svantaggi: questo vale ad esempio, per tutti i presìdi sanitari, dai cateteri alle flebo ai guanti sterili.
Altri sono invece francamente ingiustificabili se non con la follia consumistica e la dolosa ignoranza dei dati. Le tonnellate di sacchetti, bottiglie, piatti, posate, bicchieri e cannucce e packaging che quotidianamente, in tutto il pianeta e da decenni buttiamo nell’immondizia a pochi minuti dal momento in cui abbiamo iniziato ad utilizzarli non trovano scampo all’analisi di uno sguardo consapevole.
L’essenziale è visibile al fegato
L’essenziale, tuttavia e come è noto, è invisibile agli occhi. In questo caso però non è al nostro cuore che dobbiamo chiedere aiuto: è meglio rivolgerci agli altri organi interni, come il fegato e i polmoni – e al sangue. Loro, l’essenziale lo vedono eccome e non si tratta del piatto di plastica, ‘ché quello lo vedono tutti.
Si tratta di microframmenti, di nanoparticelle che da quegli oggetti di plastica nel tempo si staccano e vagano libere e invisibili, libere e imprevedibili. Fino a tornare da noi, che invece liberi di evitarle non siamo. Perché le beviamo e le mangiamo senza accorgercene: si calcola che mediamente un umano si “nutra” di circa 5 grammi di plastica alla settimana. In un anno ci sono 52 settimane. Sono 260 grammi di plastica all’anno. Certo poi una buona parte riusciamo a smaltirla. Smaltirla non vuol dire che sparisce, significa che la espelliamo dal nostro organismo, ma non sappiano, di nuovo, dove finirà. E’ un arrivederci, più che un addio, e comunque avviene soprattutto con le particelle più consistenti. Resta con noi, invece, una percentuale che il nostro organismo dovrà provare a gestire in qualche modo. E non sempre ci riesce.
L’imprevedibilità dei sistemi complessi, ancora lei
Poi, come dicevamo, ci sono le ragioni figlie del caso, o per meglio dire, figlie di quella imprevedibilità che caratterizza i sistemi viventi in quanto sistemi complessi e che dovrebbe indurre l’uomo (lo scienziato e il politico) a muoversi sempre secondo un principio di estrema cautela (sia quando ricerca sia quando legifera).
Il caso ha voluto, per esempio, che queste particelle attraggano sulla loro superficie microrganismi di cui i pesci sono ghiotti. Il caso ha voluto che l’acqua salata acceleri il processo di disgregazione delle plastiche. Il caso ha voluto che non è nemmeno necessario aspettare che gli animali di cui ci cibiamo mangino la plastica, perché uno dei vettori più straordinari per la nostra porzione di plastica settimanale è l’acqua dolce: quella nelle bottiglie di plastica più di quella nel vetro (con tappo di plastica); quella nelle bottiglie di vetro più di quella del rubinetto. Un sorso alla volta, che sia acqua o altre bevande a base acqua (come la birra, per esempio), ragiungiamo la nostra porzione settimanale di plastica. 5 grammi.
Non smettiamo di pensarci
Ma dopo esserci rovinati la giornata e i prossimi pasti, viene (anche nel libro) il momento della positività. La critica che oggi finalmente si leva verso il dissennato uso e consumo di plastiche è già uno straordinario passo avanti. Critica che la società civile esprime con forza, protestando e chiedendo con voce sempre più alta, politiche ambientali efficaci e scelte economiche coerenti; certo, la maggior parte dei governi frena e la maggior parte dei colossi dell’inquinamento minimizza. Ma il processo è iniziato e non si può perimetrare nel ristretto, per quanto virtuoso e imprescindibile, ambito delle pratiche quotidiane individuali. Da lì però si parte per chiedere che ogni attore faccia la sua parte e che le tasse che i cittadini pagano per la protezione dell’ambiente e della salute trovino un senso nel modo in cui la produzione viene disegnata e gestita, inserendo finalmente il pianeta, come Silvio Greco sottolinea in chiusura, nei conteggi delle plusvalenze.
Ecco, mi si è già bloccata la digestione…
🙁
Purtroppo vige la dittatura della plastica a tutti i livelli dei consumi !
E’ vero, ma se tutti ci mettiamo un po’ di impegno e di attenzione le cose possono migliorare. Grazie per il tuo commento!
Mia moglie ed io abbiamo deciso anni fa di non comprare più l’acqua in bottiglie di plastica ma di bere quella del rubinetto. Siamo stati convinti di farlo anche grazie alla rassicurazione di un amico che ci ha garantito che l’acqua dell’acquedotto è costantemente controllata. Lui lavorava all’epoca per l’azienda che gestiva/gestisce la distribuzione di questo bene primario (a proposito ci ricordiamo del doppio referendum sull’acqua?). Il risultato più vistoso è che nella raccolta differenziata, il nostro sacco dedicato alla plastica si riempie lentamente. Quando se ne può fare a meno, chiediamo ai commercianti di non infilare la merce in una busta di plastica. Facendo parte di un Gruppo di Acquisto Solidale dotato di coscienza ambientalista, portiamo le nostre posate e stoviglie quando organizziamo incontri conviviali per evitare l’usa-e-getta. Insomma, ognuno può dare il proprio contributo per limitare l’uso della plastica. Basta aver il coraggio di farsi un esame di coscienza sulle propire abitudini consumistiche, cercando di contrastare la nostra naturale pigrizia mentale.
Esatto. Ci vogliono anche le leggi perchè possono modificare profondamente e rapidamente i comportamenti individuali (pensiamo al fumo in luoghi pubblici); ma la volontà e la consapevolezza dei singoli cittadini sono fondamentali. Grazie per il tuo contributo.