Cara Cinzia,
prima e dopo sono le parole che la fine della quarantena mi ha stampato nella testa. Guardo, leggo, ascolto, ci penso su, e alla fine riorganizzo immancabilmente tutti i dati che raccolgo nelle due lavagne del prima e del dopo.
Il libero commercio complice del Covid
Studiavo una ricerca dell’Ocse – l’organizzazione dei Paesi a economia avanzata – su import e export di beni indispensabili per fronteggiare il Covid. Dai test diagnostici, alle visiere, dall’ossigenoterapia ai disinfettanti: scorrevo i nomi dei prodotti e pensavo che mai e poi mai mi sarei soffermata prima a ragionare sul fatto che Germania e Stati Uniti ne siano i più solidi esportatori, e che i primi 5 esportatori assicurano al mondo tra il 47 e il 67% di questi beni. In parole povere, se vuoi comprare uno di questi prodotti, in almeno un caso su due lo puoi chiedere solo a questi cinque sui 208 Stati di tutto il mondo. E te ne accorgi solo dopo che ti serve disperatamente. Prima al mercato sono state liberate le mani il più possibile, in base a un’ideologia che vuole che più le imprese sono libere di girare il mondo per produrre ciò che desiderano dove più gli convenga, tanto più ciò migliora l’efficienza del mercato, e dunque il nostro tornaconto. Ma questo e dunque – il Covid ha dimostrato, una volta in più – non funziona per tutti. Perché dopo la pandemia, ti accorgi che se uno di questi cinque Paesi chiude le fabbriche, i porti o blocca i trasporti, per prevenire il contagio o per dare la precedenza ai propri cittadini rispetto ai clienti oltreconfine, in un caso su due tu resti senza. E ne potresti anche morire. Ti fa capire che il libero commercio può essere complice del Covid se le sue regole non permetterebbero la libera circolazione di un vaccino risolutore, se pure fosse scoperto, a meno che il proprietario del suo brevetto non lo rendesse disponibile.
Solo dopo che il Covid ti sfiora ti rendi conto come sia vitale quella battaglia condotta prima, da oltre vent’anni, nell’Organizzazione mondiale del commercio da quei Paesi che non possono permettersi di rendere disponibili i farmaci essenziali ai propri poveri, perché le grandi aziende che ne registrano la proprietà intellettuale impongono prezzi-capestro impraticabili ai più.
I diritti negati dal Made in Italy
Dopo ti accorgi che se hai bisogno di mangiare a prezzi accessibili, quando i suddetti porti e aerei e confini sono chiusi, se puoi contare su un contadino più o meno a portata di piede è più facile che possa riempirti il carrello che non la fila al supermercato. Quando grandi esportatori di materie prime alimentari come India, Cina e Vietnam hanno fermato i traffici per concentrare quanto disponibile in distribuzioni umanitarie di cibo per la maggioranza dei propri abitanti ridotti in povertà, i prezzi mondiali del riso, ad esempio, sono schizzati alle stelle provocando nei Paesi ancora più poveri e scarsi di cibo, soprattutto nel sud-est asiatico e in Africa, gravi contraccolpi anche nelle fasce medie della popolazione. In Italia, dove la grande distribuzione acquista la maggior parte di ciò che si trova sugli scaffali attraverso un pugno di piattaforme che gestiscono le forniture alimentari in regime di quasi monopolio, il prezzo (anche assai più alto) che diligentemente abbiamo pagato alla cassa con mascherina, guanti e cuore in gola, soprattutto per i prodotti freschi, non è dipeso solo dal Covid. Alcune catene e mercati ci hanno applicato un ricarico “emotivo”, confidando nella nostra ridotta possibilità di muoverci. In altri casi ha pesato quella frutta e verdura non raccolte dai braccianti stranieri allontanati dai campi dalla quarantena e dalla clandestinità. Insostituibili perché unici a accettare paghe e condizioni da lavori forzati anche ben prima della pandemia, quei diritti negati che permettono a un certo Made in Italy di competere sui prezzi con gli altri leader globali dell’export agroalimentare.
Noi: malfattori e vittime
Quando poi leggi che la Cina, in una manciata di giorni “dopo” il lockdown, aveva di nuovo superato i livelli di inquinamento di “prima” della pandemia, soprattutto per le emissioni industriali, e che i cambiamenti climatici non possono nemmeno rallentare a questi ritmi di follia, capisci come scrivere chiari in distinte lavagne mentali tutti quei “prima” e quei “dopo”, a pari dignità con i conteggi sulle percentuali di Pil e di occupazione persi e di capelli bianchi e di ansia guadagnati in queste settimane, sia l’esercizio giusto per arginare l’impulso più forte che tutte e tutti stiamo provando, proprio ora che il peggio sembrerebbe passato: rimuovere e ripetere. L’ecologista amato Alex Langer nei Colloqui di Dobbiaco del 1994 si chiedeva come mai l’allarme sull’impoverimento morale, materiale e ambientale provocato già tanto prima dal nostro cosiddetto “benessere” non avesse ancora prodotto una svolta culturale e politica in Europa e nel mondo. E si rispondeva che «visto che le cause dell’emergenza ecologica non risalgono ad una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga misura».
Serve un’economia per la vita
Dopo più di 25 anni, e una pandemia che ha ucciso oltre 321mila persone in tutto il mondo, 32mila e passa solo in Italia, è chiaro che il problema più urgente in questo dopo matto e disperatissimo non sono le mascherine portate a girocollo o la movida. E’ la schizofrenia antropocenica che ci fa maledire ma anche pascere il nostro carnefice interiore. Le economiste ecologiste e femministe che lavorano sui modelli di economie trasformative sostengono che, di fronte all’opposizione “vita o morte” che ha sollevato la pandemia, stia crescendo la consapevolezza della necessità di un’economia per la vita, non contro la vita. E che bisogna rispondere all’inerzia rassicurante della ripetizione a memoria del prima, cambiando innanzitutto le priorità delle forme di organizzazione della produzione, degli scambi, del consumo del dopo, radicandole in concreto su reti socio-produttive territoriali, sulla solidarietà, la coperazione e la complementarità. Ho bisogno di crederci, di lasciare indietro in quarantena perenne il mio carnefice e continuare a lavorare per quella svolta che ha tardato anche troppo, con quelle persone che, anche a margine di queste pagine, hanno scelto di non deprimersi, di non arrendersi, di provare a guarire per intero. E di provare a respirare meglio – insieme, per quanto possibile – nelle scuole, nelle associazioni, nelle cucine e nelle case, nei nostri lavori e città. Una Politica balsamica, a pieni polmoni, che ci dimostri soprattutto che siamo ancora vivi, davvero, fino all’ultimo sorriso.
Grazie per sempre per avermi permesso di capirlo, scrivendolo, in queste belle pagine di questi strani giorni, con te.
Ci vediamo in giro
Monica
Un Finale di Stagione che “non è che l’inizio”. Grazie Monica per quello che hai lasciato, quanto a noi ci ribecchiamo subito. E mi piacerebbe che tra quelle riflessioni che tu e Cinzia ci avete regalato – le tue di questo post, infine, a cui aggiungerei, sulla lavagna, solo il fronte delle big five che sta già da tempo decidendo come progettare, e imporre, un nuovo “dopo” – e il lavoro che ogni giorno facciamo fuori da questa schermata, ci fosse un legame diretto, e che il “ci leggiamo qua” diventasse un “ci lavoriamo lì”, fisico, maledizione, con la fatica e la complessità che impegna altre parti di noi oltre occhi, cuori, dita e tastiera. Mi piacerebbe che da qui si uscisse in tanti per incontrarci e capire insieme in che modo essere più efficaci, utili, incazzati, insieme. E poi tornare qui, però; questo blog continua ad essere un luogo che indegnamente continuerò a frequentare con gusto.
[…] a Monica, per la compagnia e il sostegno e la generosità. Non mi sarei addentrata in questo labirinto di […]