Grazie a Monica, per la compagnia e il sostegno e la generosità. Non mi sarei addentrata in questo labirinto di parole che è il web senza una mano amica a darmi un po’ di coraggio e a dividere il peso dell’incertezza.
Come scrivevo nel primo post, la sensazione, anzi la consapevolezza che in giro per questa Rete di parole ce ne siano fin troppe, avrebbe avuto la meglio.
Ora sono un po’ in crisi di abbandono, ma forse ce la faccio. Poi chissà, magari qualche altro compagno di viaggio lo troverò, di tanto in tanto. Un amico di penna, come si diceva una volta; oggi non saprei come dire. Amico di touch suona un po’ ambiguo.
Il punto è che siamo fatti, in buona parte, di parole, anche quelli che pensano di no; e abbiamo poco altro da offrire.
Fatti, non parole: lo sfinimento di un refrain
Per questo sfinisce quel refrain che in questi giorni più che mai tutti si affrettano a ripetere, ogni volta che qualcosa viene deciso ma non prende immediatamente forma: “queste sono parole, noi aspettiamo i fatti”.
Intanto attenzione: è una frase da decodificare, specialmente quando viene detta dall’opposizione. Perchè se potessero dire che sulle parole che stanno commentando non sono d’accordo lo farebbero. Il problemaccio è che non possono. Non possono dire che non sono d’accordo sul fatto che l’Europa sta finalmente provando a fare l’Europa, almeno sulla questione economica che riguarda la crisi da Coronavirus (“the Corona crisis”, dicono i miei allievi, in inglese). Non possono dire che non sono d’accordo su misure economiche prese per dare sostegno ai Paesi in difficoltà, in. Quindi come si fa? Come ci si pone in modo scettico e distruttivo su una cosa che invece senti di condividere?
Si dice: sono solo parole. Io aspetto i fatti.
In difesa delle parole
Invece la dobbiamo smettere con questa storia dei fatti che sarebbero meglio delle parole. Più importanti, più utili, più significativi, più affidabili.La dobbiamo smettere di non capire che le parole producono i fatti.
Certo, ai fatti seguono molte, moltissime parole. Non sempre importanti, non sempre utili, non sempre gentili, non sempre affidabili. Ma la dobbiamo smettere di dire che tra le parole e i fatti sono meglio i fatti.
Si è parlato tanto di Unione Europa, prima di farla. A Ventotene per esempio, se ne parlava un sacco. Spinelli e i suoi amici (si diventa amici tra prigionieri politici confinati dal regime fascista? Secondo me un po’ sì) ne parlavano un sacco. Avrebbero potuto dire: badiamo ai fatti. E i fatti , per Spinelli, erano che si era già giocato più di 10 anni in carcere – dai 21 ai 31 circa – e ancora qualche anno di confino gli toccava. Se avesse badato ai fatti avrebbe chiuso i libri, buttato carta e penna e lasciato in pace i suoi amici, altro che Manifesto per un’Europa Libera e Unita.
Se ne parla tanto adesso per cambiarla. Cambierà, sta già cambiando: forse quelli della mia generazione non vedranno compiersi questa trasformazione, ma non importa. Quel che importa è che il cambiamento avvenga e vada nel senso giusto, bisogna parlarne. Parlarne tanto. Sempre. Nelle scuole, negli uffici, al bar. Se l’Europa oggi non è come la vogliamo è anche perché non ne abbiamo parlato abbastanza. Abbiamo saltato le pagine dei giornali in cui se ne discuteva, abbiamo cambiato canale quando c’erano programmi che ne trattavano. A scuola (quando andava tutto bene) ci insegnavano i confini, le capitali, e il Congresso di Vienna e la Giovine Italia, ma già la Giovine Europa un po’ meno. La prima volta che ci son stati i festeggiamenti ufficiali, pubblici, in grande per il trattato di Roma, è stato nel 2017, per i cinquant’anni. Non si fa così. I compleanni si festeggiano tutti, perché ad ogni compleanno si ragiona un po’, si guarda come si è cresciuti, si fa un piccolo progetto in più, si aggiunge un sogno alla lista.
Senza parole si muore da soli
Le parole servono, e servono le parole giuste, se vogliamo che arrivino i fatti giusti. E serve tempo, perché le parole giuste sono più lente e – massì citiamolo ancora il buon Langer – più leggere e più profonde.
Le parole servono sempre e ne servono tante, perché senza parole si muore.
George Floyd ha usato le sue ultime parole per fare in diretta la cronaca della sua morte: non respiro agente, mi fa male tutto. Agente, mi sta uccidendo. Benedetti siano gli smart phone e quelli che hanno il coraggio di usarli. Benedetti quelli che capiscono quando è il momento di filmare e non fermarsi, senza farsi spaventare da chi li minaccia e dall’orrore stesso che stanno filmando.
Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato i nomi dei centomila morti di Covid-19, con una riga di biografia: un gesto dolce, affettuoso e triste di una testata che vuole unirsi al lutto di una città e di un paese.
George Floyd sarebbe morto senza che il mondo sapesse il suo nome se lui stesso non fosse riuscito ad attirare l’attenzione su di sé usando quel poco di fiato che gli restava per dire dire dire quel che stava succedendo.
Quelle sue parole, che raccontavano fatti dietro ai quali non c’era pensiero e non c’erano state parole (perché uccidere un uomo schiacciandolo contro l’asfalto, se sei un poliziotto, non è cosa che puoi annunciare, discutere, progettare con te stesso o i tuoi colleghi, non è il gesto che segue le parole, ma il gesto che si sostituisce alle parole, è un gesto che non ascolta le parole. È uno di quei “fatti, non parole” che tanti invocano senza sapere cosa davvero stanno dicendo), quelle sue parole hanno portato migliata di persone in piazza e sì, quelle sue parole stanno dando fuoco a Minneapolis.
Serviranno molte parole, adesso, per asciugare le lacrime, placare i cuori, spegnere i fuochi. Serviranno le parole giuste, per progettare i fatti giusti e poi realizzarli. Serviranno molte parole, per decenni, perché le prossime generazioni di poliziotti bianchi non riescano nemmeno a pensare di uccidere un prigioniero. Né nero né bianco né ispanico. I poliziotti non uccidono. Se uccidono non sono poliziotti.
I nostri nomi sono parole
Quindi, per favore, smettiamola con sta storia di “fatti non parole”, perché siamo parole, a iniziare dai nostri nomi.
Se George Floyd non avesse, per badare ai fatti, continuato a parlare mentre lo uccidevano in silenzio – senza parlare, senza ascoltarlo – oggi non potremmo difendere – dando parole al nostro dolore, dando fuoco alla nostra rabbia – la memoria del suo nome.
Cara Cinzia,
è vero ciò che scrivi, forse in questo tempo confuso, si parla molto di cose futili tralasciando la sostanza. Penso anche che le parole vengano usate in malo modo, ad esempio definire questa pandemia una guerra, occorre porre più attenzione e sceglierle con più cura. Un abbraccio. Roberta
Concordo sull’inadeguatezza della parola guerra usata per la pandemia. Non è solo inesatta, ma è anche fuorviante. La guerra è cosa che riguarda solo gli esseri umani. La iniziano e la finiscono quando vogliono. Questa pandemia riguarda tutto l’ecosistema di cui facciamo parte, e no, non l’abbiamo iniziata quando volevamo nè possiamo farla finire con un accordo multilaterale preso a tavolino. Il trattato di pace che dobbiamo instaurare con la natura richiede molto di più di qualche decisione e molto più tempo di quanto ci piacerebbe. Grazie per il tuo commento.
Finalmente un blog da leggere. Parole da leggere e che possano essere di stimolo ai fatti. Serve un luogo in cui ragionare, capire, perchè se non capiamo, e questo si può fare solo con le parole, poi non possiamo agire. Sempre di più sento l’esigenza di pensare e di condividere perchè il mio timore è che lo spazio che si è aperto con il Covid possa richiudersi, senza per l’appunto fare nemmeno un mezzo ragionamento. E perchè c’è in giro una volontà ben precisa di farci smettere di ragionare, parlare, agire. Brava Cinzia, avanti così. Un abbraccio
Grazie. Mi conforti e mi lusinghi. Ragionare con calma e con tempi lunghi è un grande lusso, uno straordinario privilegio che è stato per secoli alla portata di tutti, indipendentemente dal ceto e dal censo. Le osterie, le librerie, i caffè, i salotti, i cortili, gli usci delle case a questo servivano. Ci si confrontava e si cresceva insieme. L’idea di questo blog è proprio questa: cercare e creare, un posto tranquillo in cui pensare insieme.
Care Monica e Cinzia,
ma quanto è bello e importante il vostro blog/carteggio?
Chiedo troppo se vi invito a non interromperlo, ma, se mai, ad allagarlo ad altre voci?
Fin dalla prima nota di Cinzia, quando ha presentato solo l’idea, mi è sembrata una bellissima iniziativa, ora che si palesa la mia prima sensazione è confermata. Era quello di cui avevamo bisogno. Era ciò che mancava.
Un dialogo.
Nel momento che il sistema si incaglia, si paralizza, si ferma, è facile scivolare, nel “l’avevo detto io” e riproporre il proprio manifesto, il proprio decalogo, la propria visione. Come è facile farsi prendere dall’ansia di ripartire, di recuperare il tempo perduto. Fermarsi, provare a ragionare a più voci, ascoltarsi è molto più difficile, ma è l’unica strada che può provare a disegnare una via d’uscita.
E voi avete iniziato a farlo con quella competenza acquisita negli anni “sul campo”. Non siete politici che ci arrivano per esclusione, dopo aver ripetutamente fallito con ricette scadute da tempo (ma, ovviamente, il dialogo va allargato anche a loro).
Sulla mia pag. FB ho messo come “citazione preferita” questo passaggio di Luce Irigaray: “Ma non sarebbe tempo per noi, di diventare dei soggetti comunicanti? Non abbiamo forse esaurito le altre possibilità, e persino gli altri desideri? Non sarebbe per noi giunto il momento di diventare capaci non solo di parole, ma anche di parlarci? E non è affatto la stessa cosa. Infatti c’è una differenza di economia soggettiva tra la trasmissione gerarchica di un linguaggio e di una lingua, di un ordine e di una legge, già esistenti, e lo scambio attuale di un senso fra noi.” Ecco, a me è sembrato che questo blog provasse a rispondere a questa esigenza, e che questo sia il primo fondamentale passo per poi provare ad arrivare ad una “sintesi politica” corretta ed urgente.
Donne.
Beh, sì, inutile negarlo. Il fatto che siate due donne è un’altra bella novità. Non se ne può più di questo “tutto”, politica compresa, declinato solo al maschile. Ora io non so se, come dice la brava Annalisa Corrado, “Le ragazze salveranno il mondo” (egoisticamente me lo auguro), so che “i ragazzi” lo hanno portato sull’orlo del baratro e che è indubbio che, se vogliamo provare ad arginare il peggio, occorra proprio rinascere da una relazione maschile-femminile completamente rivista.
Ho molto altro che bolle dentro.
Tornerò appena posso.
Pietro
Sì, l’idea, più o meno, è quella di intervallare periodi di carteggi con periodi di conduzione in “assolo”. Ma come vedi – e come dimostri – anche quando non c’è un carteggio con un altro autore il dialogo prende vita. Grazie!
Per una delle numerose coincidenze di cui sono piene le ore, stamattina leggevo un’intervista del presidente confindustriale Bonomi in cui, immancabilmente, la fatidica frase “ora servono i fatti” (o qualcosa del genere, proprio non ce lo metto il neurone a memorizzare Bonomi) stava nel bel mezzo di una paginata di inviti al governo e al sindacato a fare, va da sé, quello che i nostri industriali pensano sia “la strada giusta” per il Paese (mettiamo il maiuscolo d’ordinanza, facciamo vedere che abbondiamo). Insomma, siccome che c’è stata la morìa delle vacche, bisogna che il governo faccia questo e quello, che il sindacato si modernizzi, e che tutti insieme lavoriamo (‘cosa aspettate a batterci le mani?’ dal Mistero Buffo si propone sottofondo musicale). Il contratto collettivo nazionale è un orpello che va ridotto ai minimi termini, per carità, e bisogna lavorare per aumentare la produttività. Io sulla parola produttività un tuo post me lo leggerei avidamente. Chiudo con un’altra immagine mentale. Davos, solito megaconvegno annuale, una foto di un cartello che indica ai partecipanti il percorso per partecipare a “una giornata da rifugiato”. Oggi il mood è quello che è. Carbonara disturbata da rottura bottiglia di vetro e tempi cottura guanciale disturbati da non previste manovre di bonifica, e la solita sensazione che il programma di lavoro del fine settimana si chiuderà o con la solita notte insonne o con uno stato avanzamento lavori inaccettabile. Ho anch’io dei problemi di produttività, probabilmente, ma temo non siano gli stessi di Bonomi. Ci rileggiamo qui.
Tra i tanti sbagli che abbiamo commesso c’è stato quello di interpretare come opposte l’idea di produttività e quella di riproduttività. Mi illudo, ma insisto, pensando che questo virus, che ci ha costretti in casa e ci ha fatto vedere come la carbonara possa e debba convivere con la lezione da preparare o da seguire, con i bilanci da discutere e la corrispondenza da sbrigare, ci abbia anche insegnato che non ci può essere produttività senza riproduttività. Ma forse hai ragione tu, questa roba potrebbe star bene in un post dedicato. Ci penserò. Grazie.