CARA MONICA – Il privilegio del rischio quotidiano

Cara Monica,

forse ce l’ho fatta, credo di essermi riappacificata con la mia autostima.

Ho riflettuto sulla questione degli aiuti di Stato e l’equivalenza tra l’avere bisogno degli aiuti e l’essere professionisti o imprenditori scadenti, che mi affliggeva qualche settimana fa, direi che non regge più.

Il ragionamento è questo: io sto lavorando meno non perché non sono abbastanza brava, ma perché si sono bloccati tutti gli eventi pubblici, le conferenze, gli incontri, i festival che costituiscono, grosso modo, il 50% del mio reddito. Gli eventi sono stati cancellati per evitare i contagi, il quali non devono andare fuori controllo perché le strutture sanitarie oltre un certo carico non reggono e rischiano di non curarci per bene o di non curarci affatto.

Fermarsi per contenere il danno

Quindi: io non sto lavorando perché il mio Paese non aveva pronto un sistema di reazione alle emergenze che consentisse una normale gestione del pericolo e del rischio. Il mio Paese mi chiede di fermarmi e mi sostiene economicamente perché il costo del danno, se non si fermassero quelle attività, sarebbe superiore al costo di questi sussidi.

Così mi sono consolata. Un po’.

Soprattutto, però, ho iniziato a immaginare meglio, con maggiore precisione – e ottimismo – il “dopo” e ho capito che al centro della nostra idea di dopo, ci dovrebbe stare l’idea di rischio.

Gestire il rischio è possibile, eliminarlo no

Non possiamo pensare di costruire un mondo senza rischi, e francamente a me non interessa vivere in un mondo senza rischi, non capisco nemmeno bene cosa sarebbe, possiamo solo provare, seriamente, a costruire un mondo in cui i rischi impattino il meno possibile.

La vita è così, si rischia. Si rischia una malattina, si rischia di cadere e farsi male, si rischia di perdere denaro, si rischia continuamente qualcosa. Ma ci si fida. Noi, specialmente a queste latitudini, sappiamo che la maggior parte dei nostri rischi sono coperti. Se attraversarso la strada sulle strisce sono ragionevolmente sicura che la macchina che sta arrivando rallenterà. Ma so anche che, se non lo facesse (e quindi la mia fiducia fosse mal riposta), si innescherà un sistema di riparazioni e protezioni, di gestione del rischio: qualcuno chiamerà un’ambulanza, che mi porterà in un ospedale dove mi cureranno gratuitamente e l’assicurazione del guidatore mi risarcirà del danno a me o alle mie cose.

È così che funziona, qui da noi. Si rischia e ci si fida, si rischia e ci si protegge. Si commettono errori e si trovano soluzioni.

(Ci sono poi altri luoghi, dove invece gli errori costano carissimi e non c’èrimedio nemmeno per i rischi minori. Non c’è rimedio se grandina e perdi il raccolto e non sai come sfamare la tua famiglia e uno Stato che ti aiuti non c’è. Magari non esistono le tasse in quei paesi, ma sono sicura che quelle popolazioni preferirebbero un sistema fiscale all’esposizione totale in cui si trovano. Non c’è rimedio se non puoi studiare e ti sposi a 13 anni e da lì in avanti hai chiuso con la vita. Non c’è rimedio se bevi acqua contaminata e muori di dissenteria a 2 anni. Ma torniamo a noi.)

Le scuole, i trasporti, gli abbracci

Adesso, subito, a cominciare da questa fase 2, bisogna lavorare su come gestire il rischio della prossima epidemia, del prossimo problema inaspettato e globale. Ti ricordi quella frase del Vangelo “Anche voi, siate pronti, perché in un’ora che non conoscete arriverà il Figlio dell’uomo”? Ecco, più o meno così. Solo che arriverà qualche casino nuovo, che comunque è sempre figlio nostro. Sicché appunto, “estote parati”. Ce la potremmo davvero fare, non pensi?

La prossima volta…

…le scuole non si fermeranno, perché saranno sufficientemente attrezzate, ci saranno molte più classi con molti meno alunni e molti più insegnanti. Sai quanto PIL fa un’ondata di edilizia scolastica fatta come si deve e una politica di assunzioni? Vedi come va a posto il rating.

… le persone continueranno a usare i mezzi pubblici. Che nel frattempo avranno intensificato le corse, le reti, l’efficienza, la puntualità. Altra bottarella di PIL e un bel po’ di polveri sottili in meno, se useremo meno le automobili private. Non smetteremo di usare i mezzi pubblici perché aziende, uffici e scuole non chiuderanno.

…continueremo ad incontrarci, a cenare al ristorante e a far colazione al bar, ad andare in libreria e a baciarci quando ci salutiamo. Continueremo, cioé, a rischiare di ammalarci, perché sapremo di poterci ammalare. Sapremo anche che una ricerca pubblica potenziata studierà rapidamente le nuove malattie e ospedali pubblici e medicina di territorio, adeguati ed efficienti, potranno reggere la crisi. Per dire, altro PIL.

Siamo le nostre case

Le nostre case saranno pronte e nel frattempo molti avranno adottato il telelavoro per il semplice fatto che è una cosa sensata e non perché uscire è pericoloso. In queste settimane abbiamo capito molto a proposito delle case. Non è solo che le abitiamo, è che ci assomigliano e noi assomigliano a loro. Per questo devono essere accoglienti, funzionali, comode e sicure. Stiamo capendo che replicare piccoli e insufficienti spazi individuali è molto più stupido che progettare grandi e comodi spazi comuni.

I palazzi prossimi venturi devono avere una zona in cui i condomini possano andare a lavorare o a studiare in traquillità; una grande ed attrezzata lavanderia, invece di acquistare decine di lavatrici private, proprio come siamo tornati a fare, nei palazzi nuovi, con le caldaie; e ci deve essere un giardino o un terrazzo, in cui poter fare un po’ d’orto, o semplicemente stare a guardare i fiori che sbocciano e le api che li abbracciano, le formiche che si affannano e le lucertole che si scaldano.

Occhio: questo non deve iniziare dai grattacieli fighi delle zone nuove di Milano. Deve iniziare nei bassi, dalle case popolari, dai quartieri periferici che sono, troppo spesso, cataloghi di bruttura e di inefficienze. Le nostre case ci assomigliano, noi assomigliamo a loro, bisogna stare attenti. Vale anche per i quartieri, le città, le nazioni.

La connessione? Un’utenza di base

E poi: siamo nel 2020. Le case devono avere l’acqua, la luce, il riscaldamento: già qui sono un sacco di punti di PIL, perché non è vero che su questo versante è tutto a posto. Le condutture idriche sono dei colabrodi, ad esempio. In tante aree di questo sviluppato paese le acque bianche e quelle nere ogni volta che piove si incontrano e si fanno due chiacchiere, mentre i sindaci si precipitano ad emanare ordinanze per dire che l’acqua dei rubinetti per un po’ è da considerare non potabile.

Ma se anche tutto questo fosse a posto, anche quando lo sarà, non basta: ci vuole il wifi e ci vuole nelle case dei più poveri dove non avere connessione – anche questo l’abbiamo capito da poco e grazie al Virus – significa non avere scuola, lavoro, possibilità, protezione dal rischio, protezione dalla solitudine e un po’ anche dalla povertà. Lo spiega bene il mio amico Augusto Montaruli, consigliere di circoscrizione a Torino, che lancia una proposta interessante.

Siamo le nostre case, siamo le nostre scuole, siamo i nostri ospedali, siamo i nostri trasporti pubblici e siamo i nostri luoghi di lavoro. Saremo, la prossima volta, forti e bellissimi.

Obiettivo: lasciamo gli aiuti a chi ne avrà bisogno

Quindi, al lavoro, c’è tantissimo da fare, per raggiungere quello che da oggi eleggo a mio obiettivo preferito: non aver bisogno degli aiuti di Stato, la prossima volta.

Gli aiuti di Stato resteranno importanti, ma potremo lasciarli a chi, per mille ragioni non prevedibili – anche quando si fa di tutto per gestire il rischio al meglio – ne avrà davvero e comunque bisogno.

 

Ti abbraccio (sprezzante del pericolo).

Cinzia

7 risposte a “CARA MONICA – Il privilegio del rischio quotidiano”

  1. Io partirei proprio dal concetto di rischio. Questo dopo CV è sicuramente un rischio e un rischio impossibile da evitare, i rischi nella vita ci sono sempre, sta a noi affrontarli o fuggirne. Mai però come in questo caso il rischio può anche essere un’opportunità, uno stimolo, una sfida. Questo io lo sento molto. Reinventarsi è una possibilità che non viene data spesso nella nostra esistenza. Afferriamola dunque e confrontiamoci su idee nuove, soluzioni diverse, inventiamoci nuove avventure. Se ci riusciremo questo maledetto virus potrà essere vissuto non come una disgrazia che si è abbattuta su di noi ma come uno stimolo nuovo, persino con entusiasmo. Io ci sto provando, proviamoci insieme.

  2. Grazie Stefania. I miei allievi dell’Università di Scienze Gastronomiche mi hanno invitato a una live talk il 4 giugno alle 18,30 sul tema del rischio, nell’ambito di una rassegna che si chiama “aperitempo” e che hanno avviato in queste settimane di didattica a distanza, per non perdere il loro senso di comunità di Pollenzo. Pubblicherò i dettagli per connettersi.

  3. Fantastico! Fammi sapere!

  4. giampiero obiso dice: Rispondi

    Ho sforbiciato un po’ la lista di cose da fare, ed è tornata l’ora buona per ripassare da qui. Mi sono letto gli ultimi tre post d’un fiato, e mi sono passate davanti le immagini mentali di una settimana piena di adattamento a questi passaggi di fase che non sono segnati più da bollettini delle 18 o conferenze stampa logorroiche, ma dai piccoli segnali di tempo che cambia. Questi ultimi giorni sono stati un continuo cambio di stagione, segnato ogni giorno da una saracinesca aperta in più, dalla sensazione tattile di un cappuccino take away nel bicchiere di cartone alla Starbuck’s, dal risveglio sonoro di smerigliatrici, tagliaerba, soffiafoglie, e altri oggetti più o meno utili, ma tutti molesti, che hanno fatto già diventare ricordo quei meravigliosi e inquietanti silenzi – te li ricordi? – delle prime settimane di pandemia. Io ancora non riesco a rigettarmi nella mischia, e osservo con qualche sospetto una ormai certa tendenza a muovermi solo dentro una mia zona rossa mentale di due isolati per tre. E ne avrei di voglia di mettermi in macchina e farmi un grand tour di settimane, scegliendo sempre la strada meno battuta ad ogni bivio, finché non si trova quel piccolo paradiso di strade provinciali in cui, miracolosamente, ci sei solo tu e le curve e la musica. Ma prevale il senso di prudenza, e la voglia di non partecipare, da cavia, a un colossale esperimento socio-economico-epidemiologico in cui si gioca con la “riapertura” tirando la corda finché si potrà, magari riaprendo le discoteche senza ancora sapere come riapriremo le scuole. Col conto dei morti che non fa più notizia anche se ogni giorno è a tre cifre. E sto già rimpiangendo il mio giocare a the walking dead in un centro commerciale che è già tornato ad avere la fila davanti al negozio di Pandora. E mi sembra che nessuna riflessione collettiva sia stata fatta, e che il modo in cui le priorità sono state indicate da ordinanze, dpcm e decretirilancio sia un manifesto alla incosciente e incompetente voglia di ritorno a una normalità che non ci ha ancora ammazzato tutti solo perché siamo troppi. Sto leggendo in questi giorni un libro che si chiama Extreme economies. Si racconta, tra l’altro, del campo profughi giordano di Zaatari, dove migliaia di rifugiati siriani hanno creato dal nulla un’economia parallela hackerando un progetto cashless pensato e calato dall’alto, e trasformando una potenziale prigione in un piccolo mondo autocostruito in cui le donne siriane oggi riescono a comprarsi un paio di scarpe con i tacchi alti, se vogliono, e dove c’è un tasso di nascite di startup che, se Zaatari fosse uno Stato, lo metterebbe ai primi posti della classifica del Global Enterpreneurship Index. E penso che tutto quello che c’è da costruire ce lo dobbiamo costruire da soli, e tutto quello che c’è da riprenderci, come il pallone di cui raccontava Monica, ce lo dobbiamo andare a riprendere noi, se ne siamo capaci, sapendo che dietro la porta non c’è il vecchio inquilino che “mo’ vo’o buco ‘sto pallone”, ma uno Stato che sarà ancora il blueprint dei Colao, dei Bisignani, dei Caltagirone, dei Descalzi, una criminalità organizzata che ha già riempito le praterie dell’emergenza, i cani da guardia che vigilano, consapevolmente o no, sul business as usual, e una grande maggioranza silenziosa che ha troppi apericena da recuperare per distrarsi col futuro prossimo venturo. Quindi ci tocca fare da noi, perché non sta arrivando nessuno a parlarci lui, col vecchio inquilino. Ci rileggiamo qui. E’ sempre un piacere.

    1. Grazie Giampiero. Cercherò quel libro. E chissà che non si posa andare a lezione da quei profughi giordani, per imparare a stare al mondo. Sarebbe bello.

  5. Claudio Moroni dice: Rispondi

    A proposito di edilizia ho sempre pensato che un architetto/ingegnere è bravo e da premiare se progetta edilizia popolare non costosa , sostenibile e…bella, fare progetti da star senza limiti di spesa è relativamente più semplice….e soprattutto solo x una certa classe sociale…

    1. Grazie Claudio. Qualche bell’esempio di edilizia popolare in Italia c’è, uno anche qui nella mia Bra. Ma sono “esperimenti” di qualche decennio fa, che purtroppo non hanno fatto scuola. Bisognerebbe mapparli, farli diventare sistema, farli diventare un passaggio di studio per gli studenti di architettura.

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