CARA CINZIA – Se davamo retta a mia nonna

Ciao Cinzia,
come stai?

Io sto bene, ma più passano i giorni della quarantena, più mi comporto come quando, da piccola, mi confinavano in camera mia per un motivo che non ritenevo giusto. Mi organizzavo le ore e lo spazio perché, fuori, si capisse che non mi importava poi tanto, e che potevo fare a meno di loro, i grandi, per giorni. Controllavo la scorta di biscotti e piccole marmellate da hotel che nascondevo tra il muro e i giochi più pesanti, mettevo fuori quelli più scenografici e impegnativi, giravo qualche disco – scegliendo i più rumorosi – per fare una festa alla me resistente, e prepararmi a uscirne con la faccia più felice e rilassata possibile, nonostante le molte ore passate confinata e punita.

Così, in questi giorni mi alzo, faccio ginnastica, preparo la mia colazione preferita, e poi leggo online i giornali italiani e altrui con quella stessa aspettativa volutamente distratta con cui origliavo per capire se mia nonna, la mia negoziatrice ufficiale, fosse riuscita a convincere sua figlia che era ora di farmi venire fuori.

 

I black out del ’79

Mi sono ricordata anche di quei giorni del 1979 quando a causa della crisi energetica la giornata per due volte si spezzava: andava via la corrente, a turni, in tutta la città. Sulla porta dell’ascensore c’era un cartellino con gli orari, per evitare di finirci intrappolati. In casa, in ogni stanza, c’era un cassetto con una torcia, una candela, dei fiammiferi, delle batterie. Poi c’erano delle lampade da campeggio che rimanevano fisse nelle stanze a uso dei grandi. Il black out della sera era il più penoso. Io odiavo il buio con tutte le mie forze: spegneva la tv in sala, il chiacchiericcio della radio di mia nonna in cucina, anche le sue scarpette allegre suonavano ovattate e i colori si smorzavano in un grigio che, si sapeva, sarebbe finito dopo un paio d’ore, ma si lasciava dietro un senso di precarietà e di freddo che era difficile da mandare via.

In quei giorni così strani cominciai a farmi le prime domande sull’economia.

Mia nonna e mio nonno ne discutevano animatamente: «Prima ci hanno dato i soldi del Monopoli – si lamentava lei, riferendosi ai ‘miniassegni’ che per qualche anno avevano sostituito le monete di metallo che scarseggiavano per la svalutazione – mo’ ci levano la luce: ma che li votiamo a fare se non sanno fare l’economia?».

«L’economia come la faccio io funziona»

«E’ colpa della guerra in Iran se non arriva il petrolio, e poi ci siamo incaponiti di voler entrare nel Sistema monetario europeo» replicava mio nonno, comunista e contrario, come il suo partito, all’adesione allo Sme.

«L’Europa, secondo me, è una bella cosa – controbatteva la nonna –. E’ moderna, ma bisogna saper fare bene l’economia per starci. E quei barbuti ci devono ridare la benzina».
«La fai facile – ridacchiava lui – se voti la Dc, che te lo dice il prete, quelli mica so’ capaci: è pure colpa tua se ti tolgono la luce».
«Ma non ci vuole molto a fare bene l’economia – protestava ancora la nonna -. In guerra non avevamo più niente. Abbiamo lavorato, ci hanno pagato il giusto perché abbiamo fatto gli scioperi, abbiamo risparmiato, abbiamo ricostruito, tutti insieme. Chi non ce la faceva l’abbiamo aiutato, se stai male ti curano, quando sei vecchio ti arriva la pensione e stai tranquillo».

«Ma mica in tutti i Paesi funziona così, è lunga da spiegare l’economia – si spazientiva il nonno -. E poi, visto che dobbiamo stare insieme in Europa, nello stesso mercato, mica possiamo più fare come ci pare».
Ma lei era irremovibile: «L’economia come la faccio io funziona: tornano tutti i conti, stiamo bene e diamo pure una mano se serve. Non capisco perché complicare tanto le cose. Anzi, sì che lo so: perché decidete voi maschi, che non capite quasi niente». E la chiudeva lì, scarpettando via, mentre mio nonno rituffava la faccia nell’Unità.

Per me, allora, l’economia era quella scienza per cui mia nonna, con lo stipendio di mio nonno, ci faceva mangiare bene, controllare la salute, cambiare almeno un jeans nuovo a stagione, andare in vacanza al mare a casa degli zii e mi comprava le figurine ma solo un paio di domeniche al mese, perché se spendevamo troppo non si metteva niente da parte per gli imprevisti e nonno si preoccupava. Poi c’era l’Europa, una roba lontana e complicata, che ci chiedeva delle cose per essere moderni ma nessuno capiva bene cosa. E c’era la politica: una roba di maschi che non davano retta a mia nonna e ci complicavano la vita.

Aveva ragione mia nonna

Ripensandoci, alla luce di questi giorni, mia nonna aveva ragione su tutta la linea: bisogna poter lavorare per mangiare, curarsi, affrontare le spese quotidiane e gli imprevisti senza preoccupazioni e potersi riposare in vecchiaia. L’economia dovrebbe servire a capire come farlo, e la politica a renderlo possibile per tutte e tutti.

Se, però, l’economia diventa la scienza per fare soldi dai soldi, non “le regole per la cura della casa” come vorrebbe l’etimologia, ma un quasi-culto iniziatico che idolatra i coefficienti cancellando persone e contesto; se la politica aderisce alla setta, in Italia e in Europa, allora fabbriche e uffici non chiudono quando dovrebbero e le città #ripartono con un carico di morti ingiustificabile.

Mentre tutti puntano il dito contro il runner e il ragazzino col pallone, il vero untore, quello economico, abbandona comodo la scena del delitto pensando all’estate che comunque lo aspetta, con le tasche gonfie, tra Bali e le Seychelles.
Mia nonna non lo avrebbe mai permesso.

A presto
Monica

4 risposte a “CARA CINZIA – Se davamo retta a mia nonna”

  1. Cara Monica e cara Cinzia,
    che bel dono tempestivo questo blog!
    Tornerò, spero, con calma.

  2. Interessante visione

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